Scienza e magia alla corte dei Gonzaga (di Marisa Uberti)

“Scienza e magia alla corte dei Gonzaga" è l’affascinante richiamo che la città di Mantova ha emesso in occasione delle Giornate di Primavera del FAI, svoltesi il 23 e 24 marzo 2013. Approfittando di questa occasione, duepassinelmistero ha deciso di essere presente proprio all’apertura, il sabato pomeriggio alle 14.30, varcando la soglia di angoli segreti del Palazzo Ducale che normalmente non sono aperti ai turisti.

Il percorso è stato reso possibile grazie alla Sovrintendenza dei Beni Culturali di Mantova e dal Fondo Ambiente Italiano, che ha celebrato le XXI esime Giornate di Primavera, aprendo al pubblico 700 luoghi in tutta Italia.

L’itinerario ha avuto come sottotitolo ”Un salto nel tempo per immaginare i laboratori alchemici del duca Ferdinando I Gonzaga” ed è  parte di un progetto più ampio elaborato negli anni scorsi da Renata Casarin (vice direttrice della Sovrintendenza) e Lara Zanetti del Museo di Palazzo Ducale.

 

       

La parte più antica del complesso gonzaghesco, che affaccia su Piazza Sordello

  • La cultura ermetica nel XVI e XVII secolo

Per comprendere appieno il “senso” degli ambienti che andremo a scoprire, è utile rimandare il lettore ad un nostro vecchio articolo in cui veniva ribadito il fenomeno del “Ritorno ad Ermete” nei secoli XV-XVIII. Il recupero, cioè, delle conoscenze “ermetiche” che miravano alla decifrazione e alla conoscenza delle Leggi della Natura, delle norme che la regolano, che la trasmutano, in quell'incessante flusso che va dall'Uno al Molteplice e viceversa. Il più Grande Mistero dell'Uomo e del senso della vita. Per fare questo, i Filosofi, fin dalla più remota antichità, hanno fatto ricorso ad un vocabolario espressivo che ha attraversato i millenni e che, in Occidente, risale per la maggior parte ed iconograficamente ai codici tardo-medievali, che sono giunti fino a noi in varie copie compilate dai pazienti amanuensi. Trattati greci e siriaci molto antichi, probabilmente derivati da influssi Egizi, vennero tradotti dai filosofi e dagli studiosi Arabi che, nel XII secolo, li diffusero in trattati alchemico-neoplatonici. Gli stessi che, nel XV secolo, giunsero poi in tutta Europa, soprattutto manoscritti egizio-ellenici (ad opera dei sapienti bizantini).

La cosa di fondamentale importanza è che l'iconografia alchemica che compare nel primo '600, rappresenta la saldatura, di natura iconologica, di due basilari aspetti della cultura europea del 1400 e del 1500: la rivisitazione dei miti pagani e la ricerca filologica di stampo umanistico sulle immagini geroglifiche.  Molti artisti rinascimentali e i loro committenti (soprattutto nobili ed ecclesiastici) respirarono questo clima e furono attratti dall'Arte Regia, quando non si accostarono direttamente ad essa ed intesero trasporne i contenuti occultandoli (a volte neanche troppo) nelle loro opere.  Potrebbe essere così, anzi potremmo dire sicuramente fu così, anche per quelle che i Gonzaga fecero realizzare per le loro residenze, e nella fattispecie per il Palazzo Ducale di Mantova, dove la scelta dei motivi rappresentati nei dipinti o negli affreschi di pareti, volte e soffitti a cassettoni è di matrice chiaramente filosofico-ermetica.

“Del tutto a suo agio in ognuna delle diverse confessioni religiose praticate nel mondo cristiano, in certe occasioni  l’alchimia può anche accompagnare diverse forme di libertinismo o addirittura sfiorare l'eresia [...] L'alchimista di corte è una figura antica quanto l'alchimia stessa.  Solo alla fine del Rinascimento diversi principi intraprendono una politica culturale che lascia ampio spazio all'alchimia. Le loro corti dotte assumono allora il ruolo di accademie per questa disciplina ancora ai margini delle università; in Italia le più famose sono quella degli Este, dei Gonzaga e dei Medici, più tardi quella di Cristina di Svezia a Roma” [1]

Di notevole interesse è l’aspetto “alchemico” di due figure della famiglia Gonzaga, Vincenzo I e suo figlio Ferdinando, il cui laboratorio alchemico nascosto sotto  gli Appartamenti delle Metamorfosi  non è nemmeno contemplato sulle piantine ufficiali del Palazzo Ducale. In realtà, molti tra i personaggi della dinastia hanno mostrato interesse verso le Arti, una sconfinata passione per l’antichità classica e l’ermetica mitologia greca e latina, per l’astrologia e, potremmo dire in una parola sola, verso la Tradizione sapienziale. Spicca sicuramente Isabella d’Este (1474-1539), sposa di Francesco I Gonzaga, donna carismatica tanto da eclissare quasi la pur nobile figura del marito.

Ma restiamo nell’ambito della generazione che va da Vincenzo I a suo figlio Ferdinando. Già dal regno di Federico II (1500-1540) la corte di Mantova conobbe  il periodo del suo massimo splendore, e non era seconda a nessun’altra, in Italia. Ci fu quasi un furore edilizio che rasentava la megalomania: a parte le numerose residenze realizzate fuori Mantova, Federico II, Gugliemo e Vincenzo I ristrutturarono e ampliarono la Reggia aggiungendo o trasformando porzioni vastissime che presero il nome di Corte Nuova.  Con essa nacquero la Rustica, la Galleria della Mostra, il Cortile della Cavallerizza, la chiesa palatina di S. Barbara. Tutto ciò doveva aver richiesto un ingente somma di denaro ma in quel momento le casse dinastiche erano zeppe d'oro.

Vincenzo Gonzaga (1562-1612) divenne quarto duca di Mantova nel 1587; era figlio di Guglielmo e di Eleonora d’Austria. Andò sposo dapprima a  Margherita Farnese nel 1581 e poi ad Eleonora de’ Medici nel 1584. Egli cercò di emulare l’amato avo Francesco II Gonzaga dal quale mutuò l’emblema del crogiolo, presente anche sulle monete coniate durante il suo ducato.

          

 

Sappiamo bene che il crogiolo è l’emulo del calderone di celtica memoria, geroglifico della croce di Cristo nel quale la materia si sublima e diventa Spirito. Vincenzo I era considerato un gran scialacquatore di denaro, tuttavia alla sua corte fiorì la cultura e viene ricordato per il suo mecenatismo artistico. Alla sua morte, avvenuta nel 1612,  pare che abbia lasciato un milione e duecentomila scudi in gioielli d'oro e liquidi per 800.000 scudi d'oro.  Era membro dell’ordine cavalleresco del Toson d’Oro ma volle istituire un proprio ordine equestre intitolato “del Redentore o del Preziosissimo Lateral Sangue di Cristo”. Fu lui a far realizzare la cripta nella basilica di Sant’Andrea, dove si conservano –secondo la tradizione- in appositi reliquiari i frammenti di terra imbevuti del Sangue di Gesù caduti in seguito alla ferita infertagli sulla croce da Longino (di cui ci siamo occupati in apposita sezione). Vincenzo I volle essere sepolto proprio in quella cripta, in luogo segreto.

 

  • Iniziamo la visita dal Giardino dei Semplici di Vincenzo I, immagine del microcosmo

Portiamoci dunque dinnanzi all’ingresso di piazza Paccagnini. Si aprono i cancelli e veniamo accompagnati nel primo ambiente di questo percorso “alchemico”: il cosiddetto Giardino dei Semplici  (o del Padiglione), voluto da Vincenzo I.  In anni recenti è stato ricostruito o meglio riallestito secondo il disegno  e le essenze “magiche” piantate nel 1603 dal naturalista e botanico Zanobi Bocchi, un frate francescano fiorentino (zoccolante), che fu minore osservante e antiquario del duca di Mantova nonchè direttore del primo orto dei semplici di Palazzo Ducale. Il Bocchi aveva operato precedentemente presso l'orto botanico di Pisa sotto la direzione del prefetto Francesco Malocci, poi venne chiamato alla corte gonzaghesca di Mantova.

Chiaramente il Giardino dei Semplici di Palazzo Ducale doveva possedere dei requisiti ben precisi, secondo una dimensione “esoterica”, intima e sacra al contempo. Non si trova al livello del piano terra ma non è definibile nemmeno pensile. Questi “giardini segreti” erano sempre di forma quadrata, quadripartita, che doveva riflettere i quattro angoli del mondo (ma anche i 4 Elementi, le 4 stagioni, i 4 Umori, le 4 Età dell’Uomo, le 4 fasi del Magistero Alchemico che portava alla realizzazione dell’Elisir dell’ immortalità); al centro, cioè all’incrocio delle direttrici ortogonali, ci poteva essere l’Albero della Vita oppure una fonte o una vasca d’acqua (come in quello di Mantova), dalla quale uscivano in maniera allegorica i 4 fiumi dell’Eden.

       

                        Scorcio del Giardino dei Semplici ducale

“La disposizione planimetrica di questi luoghi di studio e cultura rinascimentali veniva a costituire una caratterizzazione morfemica, una iconografia ricca di richiami simbolici, alchemici e cosmogonici riferibili al sistema proporzionale neoplatonico del rapporto tra macrocosmo e microcosmo, affiancando dunque metodo scientifico e tradizione magico-simbolica. E nell'ambito della "letteratura botanicomagico-astrologica” è possibile individuare un filone dedicato specificatamente alle piante planetarie, a quelle zodiacali e quindi alla interpretazione delle virtù di erbe generate dall'influsso degli astri, nonchè dalle forze magiche insite nella natura stessa delle piante e dai riti connessi alla loro raccolta e manipolazione. Il fatto che l'uomo potesse, anche per questa via, dominare la natura secondo il proprio volere, conferisce ai giardini, e a quelli dei semplici in particolare, contestualmente alle loro configurazioni spaziali, simboli e significati nascosti" [2]. Veniva dunque studiato dove collocare ogni singola essenza, in base alle sue proprietà ma anche in relazione agli astri (importante era anche il periodo di semina).

Nel microcosmo del Giardino dei Semplici lo spazio doveva essere minuziosamente studiato per accogliere quelle essenze che si riteneva potessero veicolare specifiche virtù. Le piante che crescevano in questo Giardino dei Semplici non erano seminate e disposte a casaccio ma secondo una filosofia ermetica che forse solo il semplicista stesso conosceva. Le piante furono sicuramente selezionate in base a specifiche esigenze medicinali secondo la cosiddetta “Spagiria” o alchimia vegetale, che doveva considerare altri aspetti filosofico-ermetici; infatti il “giardiniere” non solo doveva essere una figura colta ma doveva conoscere  la geometria, l'aritmetica, l'architettura, il disegno, l’astrologia, la medicina, e non essere estraneo alla magia. E’ lo stesso frà Zenobi a dirlo, in una lettera del 26 giugno 1626 in cui  egli dichiara esplicitamente di aver applicato al giardino mantovano la distribuzione delle essenze vegetali secondo i criteri della medicina astrologica del tempo […] (3). In quest’epoca si unì dunque la tradizione medico-farmacologica dell’antichità alla concezione profondamente magica dei poteri delle piante. Nel Giardino dei Semplici di Palazzo Ducale troviamo ad esempio il tasso, che era considerata una pianta della morte e la tuja, pianta della vita. “In sostanza il duca attraverso le piante semplici, poteva controllare anche gli umori e i temperamenti dell’uomo. Le piante potevano deprimere o elevare o potenziare gli umori della persona. Dare la vita, la morte, l’estasi o l’oblio”, ci dice la nostra guida mentre ci addentriamo nei sentieri del magico orto, dove troviamo l'Artemisia o Erba Reale, la Lavanda,la Camomilla dei Tintori, la Rosa di Natale, il Melo Cotogno, il Cren o Rafano, e decine di altre erbe magiche o medicamentose, accanto a quelle aromatiche come il Rosmarino e la Salvia.

Questi Giardini erano luoghi iniziatici, normalmente protetti dai pericoli della vita quotidiana ma anche dei profani ed è per questo che li troviamo cinti da mura o edifici per meglio evidenziare la differenza con la vita profana di tutti i giorni [4]. Infatti anche attorno all’orto botanico del Palazzo Ducale troviamo una serie di edifici che sembrano racchiuderlo su tutti i lati: la Domus Nova dell’arch. Fancelli, capolavoro quattrocentesco, l’ala detta del Padiglione che era costituita da un  porticato (oggi scomparso) la cui facciata era tutta lavorata a mosaico con diverse conchiglie marittime, coralli e pietre minerali, con lucide colonne di marmo che facevano ornamento ad una nicchia (ancora oggi visibile) dove era collocata la statuetta di marmo di un fanciullino raffigurato nell’atto di versare dell’acqua da un piccolo vaso ad uno più grande.

La Domus Nova

Appartamento delle Metamorfosi

Questo edificio ospita gli Appartamenti delle Metamorfosi, fatti realizzare da Vincenzo I Gonzaga, una suite di quattro ambienti restaurati negli anni ’60 del XX secolo ma, colpiti dai danni del sisma del 2012, sono attualmente chiusi al pubblico. Le quattro sale corrispondono ai 4 Elementi naturali: Terra, Acqua, Aria, Fuoco e narrano, attraverso i soffitti decorati, le trasmutanti vicende Ovidiane. Un tema in linea con l’alchimia del sottostante giardino…

In questi ambienti si conservavano i volumi della ricchissima biblioteca dei Gonzaga, che fu desolatamente saccheggiata e dispersa con il sacco del 1630.  Nelle Metamorfosi (chiamata anche Galleria del Passerino) erano accolte anche  tutte le meraviglie del regno animale, minerale e vegetale. Ospitavano cioè le "meraviglie" che il gusto dell'epoca studiava e collezionava: feti mostruosi, pietre rare, e persino il corpo mummificato di Passerino Bonacolsi, da cui la galleria prese il nome (i Bonacolsi erano stati i primi signori di Mantova, dal XII secolo, in seguito cacciati dai Gonzaga). Secondo un naturalista cinquecentesco, il tedesco Joseph Fürttenbach, il corpo di Passerino sarebbe stato mummificato ed esposto come talismano della famiglia Gonzaga, che lo conservava  insieme ad altri corpi mummificati come quello di un armadillo, un unicorno, un vitello, e in compagnia di coccodrilli scorticati, della testa imbalsamata di un uomo e di un drago a sette teste. La leggenda vuole che a disfarsi della mummia di Passerino fosse l'ultima duchessa di Mantova, Susanna Enrichetta di Lorena la quale, stanca dell'inquietante spoglia, fece gettare il corpo nelle acque del lago. Si avverò la profezia di una maga che aveva predetto la perdita del potere a chi si sarebbe sbarazzato della mummia: i Gonzaga caddero alcuni anni dopo, nel 1708 (fonte v. qui).
 

Sul lato verso il lago l’orto è cinto da un elegante edificio porticato (un passaggio coperto che conduceva al vecchio teatro, ora scomparso), dalle cui aperture si può vedere l’incanto dell’ambiente lacustre, dei suoi colori e della sua variazioni nel corso delle stagioni.


Non va dimenticato che Vincenzo I risiedeva nell’appartamento ducale ricavato dalla trasformazione della Domus Nova dall’architetto Antonio Maria Viani (dal 1595 chiamato a corte dal duca), prospettante sul lato sinistro di piazza Paccagnini; le “retrocamere” erano le sue stanze private, di cui ricordiamo le tre sale maggiori ed emblematiche, quella di Giuditta, quella del Labirinto (col famoso motto Forse che si, Forse che no) e quella del Crogiolo, un tempo chiamate “delle Province”, “del Labirinto” e “del Marchese Francesco” (così designata perché fornita di quadri che ricordavano le imprese compiute dal marchese Francesco II Gonzaga, di cui Vincenzo I era fan).

  • La missione segreta in Sudamerica e la corrispondenza "alchemica" di Vincenzo I

Non sappiamo se Vincenzo I avesse un laboratorio alchemico (quello che tra poco visiteremo fu di suo figlio Ferdinando) ma certo ambiva all’eterna giovinezza, alla salute e alla ricchezza. Per questo aveva intavolato contatti con alchimisti (e inevitabili ciarlatani). Le cronache ci tramandano un fatto quanto meno curioso:  a soli 47 anni perse la virilità diventando impotente sessualmente. Cosa che deve avergli procurato una certa disperazione, vista la sua passione per le belle donne. Da una lettera invitagli da Madrid dal suo “agente segreto” nonché speziale Evangelista Marcobruno il 20 ottobre 1609, si apprende che lo scrivente informava il duca che alcuni frati francescani erano tornati dalle Indie (Sudamerica) confermando alcune virtù miracolose del Gusano, che era una sorta di verme piccolo e peloso delle Ande peruviane [5] che serviva come portentoso afrodisiaco e si poteva esportare essiccato senza perderne le sue qualità [6]. Qui si apre un ulteriore mistero nella vita tenebrosa del bel duca Vincenzo I: organizzò una missione segreta nel Sudamerica, alla ricerca del “gusano”, della quale erano al corrente solo cinque persone: il duca Vincenzo, il suo consigliere Annibale Iberti, due membri del servizio segreto e Evangelista Marcobruno. Era ovvio che la cosa si tenesse nascosta, il duca non voleva certo dare pubblicità al suo problema. La rocambolesca avventura non portò a nulla perché il verme (gusano) era sì stato trovato e trasportato insieme ad altri animali rarissimi in Europa, dopo un viaggio periglioso durante il quale molti di essi erano morti, ma Marcobruno e il suo carico vennero fatti prigionieri in Algeria e per il loro riscatto venne richiesto molto denaro. Nel frattempo, la moglie di Vincenzo I era morta e nel febbraio del 1612 morì anche il duca. La lettera con cui lo si metteva al corrente degli avvenimenti venne consegnata al suo successore, il figlio Francesco (V duca di Mantova) ma egli non vi dette peso, mentre in seguito Ferdinando, divenuto VI conte della dinastia nel 1612, pare di si. E forse nei suoi laboratori alchemici qualche distillato con il gusano deve averlo realizzato…

Ma torniamo a Vincenzo I. Sappiamo che egli intrattenne una corrispondenza con il suo grande contemporaneo Galileo Galilei, di due anni più giovane. Il duca avrebbe voluto l’astronomo presso di sé, alla sua corte, in qualità di esperto di fortificazioni ma forse anche di altra scienza. Vincenzo I Gonzaga usava l’astrologia per fare oroscopi e per determinare le sorti delle cose o delle persone e pare che Galileo preparasse oroscopi (anche se diceva di non credervi). Anche se il mancato accordo economico tra i due personaggi non consentì mai la presenza di Galilei alla corte mantovana, lo scienziato pisano fu a Mantova due volte nel maggio del 1604 per parlare con Vincenzo I e tra i due intercorsero diverse lettere. In una Galilei risponde ad una richiesta che il duca gli aveva rivolto durante il loro incontro, cioè se conosceva alcuni personaggi che pare di intuire fossero in odore di alchimia. Nella lettera Galileo parla di un certo Aurelio Capra, un medico milanese che forse aveva consigliato al duca un rimedio e il duca voleva saperne di più di questo personaggio. Galileo afferma nella missiva che lo conosceva tramite un altro suo amico, Giacomo Alvise Cornaro, un nobile veneto che si occupava di medicina e alchimia. Da quest’ultimo e dal Grosso, il Capra aveva appreso alcuni “segreti di medicina” e da alcuni era tenuto in stima ma soprattutto qualcuno riteneva che il Capra lavorasse al gran Magistero (Grande Opera alchemica). Inoltre, Galileo aveva appreso proprio in quei frangenti che il Capra aveva stretto amicizia con un tedesco “il quale professa gran segreti, et in particolare afferma havere una pillola, et il modo di comporla che non essendo maggiore di una veccia presa per bocca mantiene uno sano et gagliardo per quaranta giorni senza che pigli altro cibo o bevanda. Circa simili esercizii et pratiche si occupa il detto signor Capra; il figliuolo, che già è di ventiquattro anni circa, oltre a i paterni studii attende anco alla medicina secondo la via di Galeno, per mescolarla con l’altra empirica, et farne un composto perfetto, et oltre a ciò ha fatto, et tuttavia fa studio nelle cose di astronomia, et di // astrologia giudiciaria nelle quali da molti è tenuto che habbia et prattica, et giudizio esquisito, questa è quanta relatione posso di presente dare all’Altezza Vostra Serenissima, la quale se comanderà che più particolarmente proccuri di penetrare, obbedirò ogni suo cenno[7].

Si ha ancora una testimonianza di come a quel tempo la medicina galenica fosse strettamente mescolata con quella dell’altra via, chiamata empirica, e che è probabilmente da riferirsi all’alchimia, connubbio che poteva procurare un “composto perfetto”.

Bisognava stare attenti anche a come ci si esprimeva perché l’Inquisizione era sempre pronta a scoprire possibili eresie. Alla corte di Vincenzo I si riuscì a tenerla lontana, forse perché a Mantova astrologia e alchimia erano impiegate come mezzi naturali per curare soprattutto le patologie cardiache.


  • Ferdinando Gonzaga e l’antro alchemico

Nel Giardino dei Semplici si può notare un'apertura nella parte inferiore dell’edificio ospitante gli Appartamenti delle Metamorfosi: si tratta di uno sfiatatoio per il forno alchemico o athanor, che si trovava proprio al di sotto.

      

Attraverso una scala di una certa pregevolezza si giunge ad un piano di calpestio più basso. Qui si apre alla vista un ambiente altamente suggestivo, colonnato, con un soffitto caratterizzato da motivi di grandi soli con raggi sagomati, al centro un motivo di quadrato concentrico, su uno sfondo di studiate geometrie. Forse un tempo questi soffitti erano dipinti. Appena scese le scale si vedono due “finte porte” munite di timpano triangolare (alla moda classica), tra cui si interpone una grossa finestra che permette la visuale sul lago. Lo stupore lascia gradualmente il posto alla sensazione di trovarsi in un luogo assai insolito e imprecisamente connotabile (grotta ciclopica, un misterioso santuario, rievocazione di un ambulacro romano?).

    

    

     Curioso soffitto del cortile-grotta antistante il laboratorio alchemico

Superata la prima porzione dell’affascinante ambiente, sulla sinistra si aprono due porticine: una è chiusa ed era pertinenza della Farmacia, l’altra conduce nell’atteso laboratorio alchemico.

             

      

Se pensavamo di trovare uno spazioso locale con i banconi ricolmi di alambicchi, storte, beute, matracci,  siamo rimasti con un palmo di naso: infatti nel primo locale, di forma rettangolare, sono accatastati, sul pavimento, numerosi frammenti lapidei di imprecisata provenienza e nel secondo, molto più angusto e dotato di apertura di ventilazione (la stessa che si vede stando nel Giardino dei Semplici), non rimane che la sagoma (tamponata da mattoni) di un probabile athanor…o meglio della sua canna fumaria.

                  

Impossibile sapere se dietro i mattoni si nasconda qualche altro locale segreto. L’idea che qui si manipolasse la materia è comunque suggestiva, anche se ci vuole molta immaginazione! Il tempo, i saccheggi, l’incuria hanno reso desolante quello che doveva essere uno degli ambienti più segreti e importanti per il palazzo e per coloro che vi passavano il tempo separando, distillando, cuocendo, filtrando, ecc. Certamente dovevano esservi dei passaggi privati e nascosti che permettevano al duca Ferdinando di raggiungere il suo laboratorio, direttamente dagli appartamenti sovrastanti.

Probabilmente venivano preparati composti spagirici, in cui le essenze dell’Orto dei Semplici venivano sapientemente impiegate nelle loro parti medicamentose o velenose, per preparare pozioni, antidoti, medicamenti. Tutto un rituale doveva essere seguito e rispettato per queste operazioni, dalla scelta del momento propizio di raccolta delle erbe al loro trattamento speciale ed esclusivo degli alchimisti. Così come nel Giardino dei Semplici si era prima impostata tutta una filosofia ermetica di base, come abbiamo visto precedentemente, nella fase di utilizzo pratico dei prodotti di quel microcosmo ci volevano persone sapienti. Un cerimoniale inefficace avrebbe compromesso l’esito dell’Opera; l’uso improprio dei principi attivi poteva provocare gravi pericoli o non far ottenere l’effetto desiderato.

Ma chi era Ferdinando Gonzaga? Anzitutto era il secondogenito di Vincenzo I, che dalla moglie Eleonora aveva avuto sei figli. A succedere al padre doveva essere il primogenito, Francesco, nato nel 1586, nominato duca di Mantova con il nome di Francesco IV e duca del Monferrato con il nome di Francesco II, dal 1612. Ma proprio in quell’anno morì, come il padre Vincenzo I. Ad occupare la carica vacante fu chiamato quindi Ferdinando, che era nato nel 1587 e che era divenuto cardinale nel 1607, a soli vent’anni. Risiedeva a Roma con il titolo di cardinale diacono di Santa Maria in Domnica (dopo due anni optò per il titolo di Santa Maria in Portico Octaviae). Un ecclesiastico, quindi: chissà quando gli venne la dedizione all'alchimia?

Ferdinando ricevette la corona di VI duca di Mantova nel dicembre del 1612 e deposto poi lo stato ecclesiastico (1615), sposò Camilla Faà di Bruno (1616) e in seconde nozze Caterina de' Medici (1617). A dispetto della sua ricerca alchemica, la sua morte avvenne nel 1626, quando aveva appena 39 anni.

Entrambi questi due figli di Vincenzo I ricevettero un’educazione improntata alla cultura. Ferdinando aveva ereditato da suo padre anche il temperamento inquieto e l’amore per le cose belle e sfarzose, oltre che il titolo di Gran Maestro dell'Ordine militare del Sangue di Gesù Cristo. Egli era anche Cavaliere del Sovrano Militare Ordine di Malta.

Sappiamo che alla propria corte ospitò celebri artisti, tra i quali Domenico Fetti (detto Il Mantovano), Carlo Saraceni e il fiammingo Antoon van Dyck. Come architetto scelse Nicolò Sebregondi, che edificò tra il 1613 e il 1624 la sfarzosa residenza di campagna Villa La Favorita.

  • I misteriosi appartamenti in miniatura del duca

Sotto il governo del duca Ferdinando le ricchissime opere d'arte del palazzo furono inventariate con criteri all'avanguardia, la cui utilità si rivelò ancora maggiore perché stava per avere inizio la diaspora delle opere custodite nei palazzi di Mantova. Nella Domus Nova egli fece realizzare l'appartamento del Paradiso (attualmente sede degli Uffici della Soprintendenza), e un intricato sistema di appartamenti in miniatura, che per molto tempo (fino al 1979) ha fatto ipotizzare che fossero le residenze dei nani di corte (!). Questi ambienti si trovano sotto la residenza dove abitava il duca e vennero anche chiamate Catacombe di Corte. Solo dopo accurati studi si è scoperto che si tratta dell’appartamento per il culto privato di Ferdinando, fatto costruire per sua volontà nel 1615. detto Scala Santa, una riproduzione in misura ridotta della Scala Santa di San Giovanni in Laterano a Roma. Vi si accede attraverso un intrico di ridottissimi ambienti seicenteschi decorati con cornici a stucco e disposti intorno ad una vano ottagonale, in asse, la cappella. Questa doveva essere il corrispondente del Sancta Sanctorum romano e si raggiungeva dopo essere saliti in ginocchio per una delle tre scalette parallele che la collegano al sottostante giardino (che fiancheggia il Cortile d'Onore).

Chissà se per questi labirintici passaggi il duca Ferdinando poteva accedere anche al suo antro alchemico?

  • Proseguimento e fine del percorso di visita (e della dinastia)

Usciti dall’antro alchemico di Ferdinando Gonzaga, sostiamo incantati sotto la testata della Cavallerizza, che si apre poi sullo splendido scenario del Cortile della Mostra (1556), detta nel Settecento Cavallerizza, realizzato dall'architetto Giovan Battista Bertani, sviluppando su tre lati il motivo architettonico desunto dalla facciata iniziata da Giulio Romano della cosiddetta "Rustica" che costituisce il lato meridionale del cortile stesso. Tra il 1561 e il 1573 si compì, probabilmente sotto la direzione di Bertani, la decorazione delle stanze della "Rustica". Nel 1572 egli trasformò in galleria la preesistente loggia giuliesca detta dei Marmi. “Il risultato è un motivo continuo di doppio ordine d’arcate a bugnato di intonaco rustico policromo scandito, nell’ordine superiore, da un giro ininterrotto di colonne tortili su piedistalli e mensole che sostengono il coronamento a trabeazione con doppia cornice[8].

 

Qui nel Settecento si svolgevano probabilmente le mostre o esibizioni dei cavalli dei Gonzaga, animali che essi amavano particolarmente.

Sul lato sinistro del meraviglioso edificio era disposta la magnifica Galleria della Mostra, così denominata proprio perchè "mostrava" ai visitatori della corte i capolavori come i dipinti di Raffaello, di Andrea del Sarto e anche la Morte della Vergine del Caravaggio, fatta acquistare a Vincenzo Gonzaga da Rubens e ora conservato al Museo del Louvre di Parigi. Nella Galleria della Mostra vi sono oggi conservati 64 busti in marmo d’arte romana e rinascimentale, oltre a tre statue a figura intera, tra cui il celebre Apollo di Mantova, su quello centrale la Galleria dei Mesi, mentre la galleria di destra affaccia sul lago.

La disponibilità economica che aveva ereditato Ferdinando  cominciò ad un certo momento a scarseggiare e divenne disastrosa al punto che, già un anno prima della sua morte, egli avviò contatti per vendere una parte delle preziose collezioni d’arte, chissà con quale dolore.

Il duca morì nel 1626 e, non avendo avuto figli, fu succeduto al trono dal fratello Vincenzo II (1594-1627) ma già in vita Ferdinando aveva preso contatti con il ramo francese della dinastia, i Gonzaga-Nevers. E aveva agito bene perché Vincenzo II (cardinale anche lui) era cagionevole di salute e regnò sul ducato per un solo anno (1626-1627): fu l’ultimo discendente maschio della dinastia mantovana dei Gonzaga, che con lui si estinse.  Sotto il ducato di Vincenzo II e del successore (il cugino Carlo I Gonzaga-Nevers), tra il 1627-‘28 le collezioni vennero vendute per una cifra irrisoria al re d'Inghilterra Carlo I Stuart, per fronteggiare le difficoltà economiche del ducato.

Il colpo di grazia alle mirabili opere d’arte rimaste e ai  manufatti artistici conservati nel Palazzo Ducale arrivò nel 1630 con il saccheggio da parte dei Lanzichenecchi inviati dall'imperatore Ferdinando II, evento che diede inizio alla Guerra di Successione. Anche la straordinaria biblioteca venne depredata e dispersa.  Agli ebrei, che erano sempre stati protetti da Vincenzo I (che creò un ghetto nella città), furono sottratti i beni dai banchi e ben presto si diffuse anche la peste.

Nel 1631 Mantova fu restituita ai Gonzaga-Nevers ma lo splendore della dinastia non ritornò mai più e nel 1708 ebbe fine. Cominciò la dominazione austriaca, sotto la quale il Palazzo Ducale divenne palazzo Reale.

 

  • Abbiamo cercato di entrare e farvi entrare nello spirito della corte gonzaghesca dei tempi d’oro, quella che –nonostante tutto- è ancora possibile respirare visitando il complesso, i cui singoli edifici vennero collegati e uniformati dai membri della dinastia nel corso del tempo.
  • Abbiamo visto gli ambienti meno noti ai turisti, cercando di comprenderne la filosofia di base, lo scopo, la cultura in cui maturarono e decaddero. Difficile penetrare nell’ideologia profonda di chi li commissionò, li utilizzò,  li visse e poi li perse, ma come sempre non è questa la nostra pretesa: abbiamo semplicemente voluto fare due passi in alcuni dei misteri che ancora oggi circondano di fascino arcano la secolare residenza dei nobili Gonzaga. E per chi volesse continuare il percorso nei misteri mantovani, non resta che recarsi nella vicina chiesa di Santa Barbara, dove solo nel 2007 è stato scoperto il loro sepolcro segreto, che era stato cercato per almeno tre secoli [9].

 


[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/la-rivoluzione-scientifica-alchimia_(Storia-della-Scienza)

[2] Claudia Maria Bucelli  Sapere e Simbolo: l’orto botanico come iconografia, in Quaderni della Ri-Vista- Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1824-3541 Università degli Studi di Firenze -Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica- Firenze University Press, anno 2007 – numero 4 – volume 3 – settembre-dicembre. Sezione: temi del paesaggio, pagg. 167-168

[3] Claudia Maria Bucelli, op. cit., nota 34

[4] Devon Scott I giardini segreti in “I Giardini incantati. Le piante e la magia lunare”; Ed. Venexia, 2006, p. 33

[5] Che gli aborigeni peruviani chiamavano Pullo Pullos. Tuttavia potrebbe trattarsi di una larva di lepidottero che cresce nell’Agave (che si chiama Maguey in lingua locale messicana, una pianta di origine americana) e che si raccoglie nella stagione delle piogge. Il Gusano era noto già in epoca preispanica; gli indigeni usavano da tempi remoti un preparato a base di agave fermentata chiamata “pulque”, una bevanda rituale usata per entrare in contatto con gli dei. Quando arrivarono gli Spagnoli portarono gli alambicchi e iniziarono a produrre bevande distillate, impiegando dopo poco anche l’agave (maguey) e ottenendo il Mezcal (antenato della Tequila). La preparazione era lunga e laboriosa e la pianta da impiegare deve avere almeno 8 anni. El gusano del maguey (verme del Mezcal) è appunto una larva di lepidottero che cresce nell’Agave e si introduceva in alcune bottiglie di Mezcal. Il vero e proprio gusano del maguey era quello bianco (verme bianco, una larva di farfalla il cui nome latino è Acentrocneme hesperiaris). Meno pregiato era considerato il Gusano Rojo (verme rosso, in lingua nahuatl chilocuil o chinicuil o anche tecol, nome latino: Hypopta agavis).

[6] Archivio Gonzaga di Mantova (AG, b. 609, c. 335). Il Gusano viene ancora oggi impiegato in due modi principali: o nella bevanda come detto alla nota precedente oppure come Sal de gusano cioè sale con pezzettini di verme dell’agave disidratato o tostato, che si mangia mentre si beve il Mezcal; può essere mangiato come antipasto o stuzzichino (viene tostato sul comal da solo o con chile), vedasi  https://www.mezcal-italia.com/produzione-mezcal

[7] Questa lettera è stata rinvenuta nell’Archivio Gonzaga da B. Boncompagni nel 1868.

[8] Antonio Paolucci “I Gonzaga e l’antico percorso di Palazzo Ducale a Mantova”-Itinerari d’’arte e di cultura- Musei, Fratelli Palombi Editori, 1988, p.78

[9] https://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/spettacoli_e_cultura/tombe-gonzaga/tombe-gonzaga/tombe-gonzaga.html

 

Sotto, il nostro video che condensa la visita descritta nell'articolo:

Argomento: Scienza e magia alla corte dei Gonzaga

Metodologia della ricerca: nuovo e interessante

Giovanna | 03.02.2016

Ottima presentazione argomentata semplicemente e quindi con il grande pregio di prestarsi a essere divulgativa della storia nella sua essenza, cioè della storia vita reale e concreta riconoscibile nel presente! W Mantova!

Scienza e magia alla corte dei Gonzaga

Diego Berzaghi | 15.01.2016

Superlativo
Adesso stanno restaurando per l'apertura al pubblico il "Giardino dei Segreti"

za scienza e magia alla corte dei gonzaga

Davide | 18.11.2014

Sublime

Meraviglioso

Davide | 05.08.2014

Interessantissimo, sia articolo che video.

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