Il Castello visconteo di Pagazzano (BG)
Situato nella "bassa pianura bergamasca", il territorio di Pagazzano vanta uno dei castelli medievali meglio conservati dei numerosi che sorsero nel territorio della Gera d’Adda[1] ad opera dei Visconti di Milano nel XIV secolo. In questo articolo cercheremo di accompagnare il lettore tra le pieghe della storia meno nota che lo riguarda e, soprattutto, degli aspetti ancora poco conosciuti che non mancheranno di stimolare i nostri lettori, anche coloro che lo hanno già visitato e che sentiranno il desiderio di tornare a vederlo “con altri occhi”. Studi e ricerche sul castello infatti non si fermano mai e il Gruppo della Civiltà Contadina (in seguito denominato GCC)[2] di cui la scrivente fa parte si sta impegnando su diversi fronti per ricomporre i tasselli che ne costituiscono l’identità e per dipanare gli enigmi che ancora lo avvolgono e ci coinvolgono. Ogni curiosità può diventare occasione di approfondimento e quest’ultimo di conoscenza, che può e deve generare spinte motivazionali tese a valorizzare un bene che non è soltanto materia di chi lo gestisce ma è un bene collettivo. Sappiamo bene che i castelli sono i topoi del mistero per eccellenza: il loro fascino arcano li privilegia come ambientazioni romanzate o cinematografiche[3], tra le loro torri corrono aliti di leggende che restano sospese tra fantasia e realtà, i loro muri celano accattivanti passaggi segreti ma conservano principalmente le tracce tangibili dei protagonisti della vita quotidiana che si è srotolata nel corso dei secoli.
Nell’arco di sette secoli il maniero pagazzanese ha conosciuto tre diverse destinazioni d’uso, caratteristica che lo distingue da altri castelli del territorio: originò infatti da esigenze difensive e militari, quindi nacque e si evolvette come una fortificazione di confine (XIV-XV secolo) per poi trasformarsi in una residenza nobiliare e, negli ultimi due secoli, in azienda agricola. Tutti e tre questi aspetti sono tutt’oggi perfettamente visibili e coesistono insieme, anche se non è facile mantenerli. Il GCC ha svolto, in circa vent’anni di attività, un encomiabile lavoro di fusione delle diverse anime che compongono il maniero, in maniera tale che chi lo visita possa ricavarne una “visione d’insieme” sufficientemente chiara. Tuttavia molta arte giace ancora sotto strati di intonaco e per poterla salvare (e conoscere) sono necessari interventi urgenti di messa in sicurezza degli affreschi, che altrimenti rischiano di scomparire prima ancora di averli potuti studiare[4].
Attualmente alcune sale al pianterreno dell'ala rustica ospitano la Biblioteca Comunale mentre gran parte del complesso è visitabile attraverso un percorso guidato (la prima e terza domenica del mese) sostanziamente ad anello che, partendo dalle strutture più antiche, tocca gli ambienti più significativi, con le loro vicende secolari che vengono raccontate dai membri dello staff del GCC che si alternano e hanno in comune competenza e affabilità. Nel tour è compreso il Museo etnografico della Civiltà Contadina, allestito nei suggestivi sotterranei (totalmente visitabili) e comprendente oltre duemila attrezzi, suddivisi per sezioni tematiche (stanza dei pesi e delle misure, bottega del ciabattino, del casaro, del maniscalco, del vinaio, ecc.); facoltativamente è possibile visitare anche il M.A.G.O. (Museo Archeologico delle Grandi Opere), aperto al pubblico nel 2016 e consigliatissimo[5], che può essere unito al tour di visita oppure visitato a sè stante.
Uno sconosciuto manufatto nel Museo della Civiltà Contadina allestito nei sotterranei: lo riconoscete? Se la risposta è negativa, lo scoprirete durante la visita guidata!
Ogni angolo è una sorpresa
- Atmosfere medievali e graffiti in cerca d'autore
Il castello di Pagazzano ha una storia particolarmente intricata che parte in forma documentata con Bernabò Visconti (1323-1385) e prosegue con i suoi discendenti locali, i Visconti di Brignano e di Pagazzano, fino all’esaurirsi di questa linea viscontea con Giandomenico (+1714), il quale ebbe un’unica figlia, Francesca (+1793). Fu lei ad ereditare il feudo pagazzanese, che portò in dote al marito, Gaspare Biglia (o Bigli, 1702-1752), nobile esponente di un’ antica casata milanese. Passato in eredità alla loro figlia Fulvia (marchesa del S.R.I., 1741-1828), subentrò nel patrimonio della famiglia Crivelli per unione matrimoniale tra la nobildonna e il marchese Tiberio Crivelli (1737-1804), appartenente ad un’altra antica e importante casata milanese. Di generazione in generazione, il castello restò proprietà dei marchesi Crivelli fino al 1968, quando fu venduto a privati e nel 2000 fu acquistato dal Comune di Pagazzano, che diede il via ad interventi urgenti di restauro e messa in sicurezza (anche se molto resta ancora da fare e diversi ambienti non sono tutt’oggi visitabili).
L'approccio migliore per rendersi conto delle trasformazioni architettoniche intervenute nei secoli è iniziare a osservare il castello dalle varie angolazioni e dai quattro punti cardinali; ciascuna regala splendide prospettive, pur essendo diversa, ciascuna “racconta” storie diverse, un'epoca diversa e funzioni diverse ma la caratteristica peculiare è la presenza del fossato adacquato che le circonda per tutto il perimetro, un unicum per i castelli della provincia di Bergamo. Adesso è una risorsa che rende quasi fiabesca la cornice castellana, ma il suo scopo originario era di impedire l’attacco dal basso. Da dove arriva quest’acqua? Quanto è profonda? Sono domande che i nostri visitatori ci pongono, specie gli arguti bambini. Il fossato del nostro castello era alimentato da risorgive; per un periodo - durante i lavori di restauro -rimase senz’acqua, la quale fu reintrodotta nel 2009 ed è attualmente regolata da una chiusa nell’angolo nord-occidentale. Si deve considerare che Pagazzano sorge in un territorio ricco di acque[6], tra l’altro interessato dalla presenza – in passato – del Lago Gerundo[7] che tanto fascino esercita ancora oggi sull’immaginario collettivo.
A nord vi è l’ingresso, con le strutture medievali fortificate, che ci rimandano indietro di sei-sette secoli, costituendo infatti la parte più antica di tutto il complesso. Il mastio e il Palatium castri alla sua sinistra (per chi guarda) costituiscono molto probabilmente il nucleo primitivo, eretto al tempo di Bernabò Visconti [8] che, alla morte dello zio arcivescovo di Milano Giovanni, ricevette il governo dei possedimenti di Bergamo, Brescia e Cremona, quindi anche della Gera d’Adda. Alle primigenie strutture difensive furono aggiunte l’antiporta (che sta davanti al mastio), la snella torre di vedetta, le mura “a scarpa” quadrilatere con quattro torrette angolari (di cui ne restano due), il camminamento di ronda, il ponte levatoio e il rivellino [9], nell’ambito di un progetto di rinforzo delle fortificazioni mirato a migliorare i sistemi difensivi della Gera d’Adda. Il lato nord “racconta” proprio questa evoluzione architettonica, completatasi intorno al 1465 quando il castello era già subentrato tra i possedimenti del duca di Milano Francesco Sforza (1401-1466) [10].
Dall'esterno provate a immaginarvi lassù, tra i merli, dove i soldati montavano di guardia. Il livello più basso è pertinente l'antiporta e da lì si aveva una visuale concentrata a settentrione e soprattutto sull'ingresso al forte. Il corpo di guardia nel livello superiore del mastio aveva invece una visuale a 360° e quindi un controllo completo di tutto il territorio circostante. Con la visita guidata è possibile salire la suggestiva scala a chiocciola ricavata nella muratura medievale e raggiungere entrambi (antiporta e mastio) ma è possibile entrare anche nei locali che dall'esterno non si vedono.
Ad eccezione del locale dell'antiporta (non accessibile al pubblico), gli ambienti che compongono i due piani del mastio sono visitabili e anche se spogli, mantengono il fascino tipico dei manieri, nonostante queste stanze abbiano avuto una funzione diversa negli ultimi secoli a questa parte, divenendo infatti depositi per le granaglie al tempo della trasformazione in azienda agricola. Fu allora che nel castello sorsero abitazioni per i coloni e le strutture fortificate conobbero una nuova destinazione d'uso. A questo periodo "contadino" si devono ascrivere i numerosi graffiti lasciati sui muri interni del mastio e dell'antiporta (graffiti sono riscontrabili in molti ambienti di questo castello). I disegni - realizzati a carboncino, a grafite o a penna - comprendono un variegato repertorio tematico, quanto mai interessante, spaziando da segni di conteggio (tacche) ad elementi zoomorfi (come un bellissimo cavallo sulla cappa del camino al I piano), da personaggi caricaturali a sigle indecifrate e operazioni aritmetiche fino a simboli devozionali o sacri come interessanti croci, che raccontano il forte legame esistente tra la civiltà contadina e la fede religiosa. Rivolgersi al divino, infatti, era l'unico modo per scongiurare tempeste (assai temute specie nel mese di maggio, quando le spighe del grano sono ancora giovani e la grandine potrebbe rovinarle completamente, mettendo a repentaglio il raccolto e- quindi- il sostentamento) o propiziare messi copiose, nonchè proteggere il raccolto una volta immagazzinato (erano guai se si fosse guastato). Esistono in effetti molte tradizioni popolari connesse con la vita agreste e con le operazioni di mietitura che rimandano ad arcaici culti e che i contadini hanno portato avanti più o meno inconsapevolmente.
La "stanza del camino" al I piano del mastio è interessata dalla presenza di numerosi graffiti sulle pareti, che sono tutt'ora oggetto di un nostro approfondito studio. Nella foto si possono vedere tre diverse tipologie di disegni tracciati a carboncino sulla cappa: un antropomorfo, una scritta latina e un cavallo
Una croce-calvario lasciata su una parete del primo locale al I piano del mastio; la freccia indica la presenza del cartiglio (I.N.R.I.). L'anonimo disegnatore si curò anche di mettere tre puntini in corrispondenza dei chiodi della Crocifissione, anche se non vi è fisicamente Cristo crocifisso. Accanto si vedono 15 segmenti disposti in sequenza; forse si stratta di segni di conteggio ma potrebbero anche indicare i 15 Misteri del Rosario (portati a 20 in tempi più recenti)
Una operazione di calcolo in colonna su una parete del locale dell'antiporta (non visitabile). Il conteggio attesta chiaramente che si riferisce ad una quantità di granaglie, di cui 300 "pagare" e 69 "da macinare", facendoci capire che quella stanza fu certamente riutilizzata in epoche successive a quelle militari e cambiando destinazione d'uso. In epoche non troppo lontane nel tempo (tra XIX e XX secolo) si svolgevano attività legate alla pesatura del grano
- Passaggi segreti?
- Un poeta trecentesco nel castello
- 13 novembre 2005: la scoperta di sconosciuti ambienti sommersi
Il baluardetto nord orientale dall'esterno sembra integro ma dalla parte interna fu sventrato parzialmente per ricavarvi un...pollaio, al tempo della trasformazione in azienda agricola. Ciò non ha comunque tolto il fascino alla prospettiva di questo punto di osservazione.
- Il castello trasformato
La facciata esterna del Palazzetto, rivolta a nord, è interessata da vari tipi di graffiti (in fase di studio) ma essi si trovano su strati di intonaco precari, che a causa dell'umidità, degli agenti atmosferici e dell'usura del tempo, stanno inesorabilmente cadendo. La cosa grave è che trascinano con sè strati di intonaco sottostante, su cui si trovano preziosi affreschi del 1500! BISOGNA SALVARLI! Di seguito lo stralcio della relazione tecnica sullo stato degli intonaci interessati: Il GCC si è attivato per sensibilizzare la popolazione e tutti gli amanti della cultura, patrimonio universale, istituendo una raccolta fondi di 5.000 euro per procedere al loro consolidamento, che è urgente! Per maggiori informazioni e/o per sostenere il progetto scrivere a: castellodipagazzano@gmail.com oppure tramite la raccolta fondi di gofundme GRAZIE della vostra attenzione |
Nel sovrastante granaio si trova la data del 1609, insieme a tantissime tacche (segni di conteggio) lasciate sui muri. Un particolare solletica la nostra curiosità: perchè all'ingresso della scuderia c'era una lunetta e probabilmente un ulteriore elemento completamente occultato da strati di calce? Sono alcune delle tante domande che ci facciamo, conoscendo sempre meglio questo straordinario luogo storico. Questo corpo di fabbrica, insieme alla grande "sala delle rimesse", dove è alloggiato il mastodontico torchio vinario con vasca datata 1736 (ma esistente sicuramente da almeno due secoli prima, seppure non sappiamo in quali forme), appartiene ai rimaneggiamenti seicenteschi del castello.
I Bigli, che dal 1747 avevano stabilmente preso in mano la gestione del castello e i suoi possedimenti, ebbero tre figli: Vitaliano, Anna e Fulvia (1741-1828). Fu quest'ultima - donna Fulvia, dama della Croce Stellata- a portare in dote al marito, marchese Tiberio Crivelli, il maniero. Dal matrimonio tra Fulvia Biglia e Tiberio Crivelli nacquero: Enea (1765-1821), Anna (1768-1807) e Paolo (1770-1837). Di lui sappiamo che si fece abate a partire dal 1788 ma, tornato laico, si sposò nel 1814 con Marietta Perego (1778-1844). Nel 1819 ebbero un figlio di nome Luigi, anch’egli patrizio milanese (+1901), che fu un bacologo insigne e sindaco di Inverigo. Nel castello di Pagazzano una targa commemorativa ricorda che il marchese impiantò un innovativo essiccatoio “sistema Boltri” nel 1888.
Le sorti del complesso erano definitivamente cambiate, venendo definitivamente trasformato nel 1828 in azienda agricola e tale rimase fino all'alienazione del complesso. Il Palazzetto divenne un granaio (vi si ammassavano le granaglie, senza riguardo per ciò che aveva rappresentato per secoli, cioè una dimora signorile) e una delle sale nobili al pianterreno funse anche da pollaio...
Una fotografia scattata quando il Salone del Palazzetto era "invaso" dal grano stivato al suo interno in tale quantità da ostruire quasi completamente l'imboccatura del grande camino. Si osservino, contestualmente, i tre bellissimi stemmi scolpiti sull'architrave: al centro il Biscione Visconteo, a sinistra l'impresa dei Visconti di Brignano e Saliceto e, a destra, quello dei Barbavara [12]
- Un castello per due illustri fratelli: Sagramoro II (+1472) e Pier Francesco Visconti (+1484)
Narrando le vicende di questo fortilizio si devono tenere presenti due parallele evoluzioni politico-familiari: quella dei duchi di Milano e quella dei Visconti locali. Bernabò aveva infatti destinato il castello di Pagazzano ad uno dei suoi figli naturali, Lancellotto (1350 ca- 1441) e in seguito ad uno dei numerosi fratellastri di quest'ultimo: Sagramoro I, dal quale discese la linea che portò a Leonardo e ai suoi figli, Sagramoro II (+1472) e Pietro Francesco (+1484)[13] figure fondamentali nelle vicende storiche e architettoniche del nostro maniero, che approfondiremo tra poco. Se nel ducato milanese la dinastia viscontea ebbe termine con Filippo Maria e fu proseguita dagli Sforza, nei feudi di Pagazzano e Brignano i Visconti misero radici tanto profonde che durarono per secoli. Tra Sagramoro II (chiamato anche Sacramoro) e Francesco Sforza (nonchè con i suoi discendenti) vi furono sempre rapporti di amicizia: Sagramoro II fu capitano di ventura al servizio dello Sforza ben prima che egli divenisse duca di Milano.
Per questo, salito al potere, Francesco concesse importanti privilegi a lui e alla sua famiglia. Il 22 giugno 1465 avvenne una divisione tra Sagramoro II e suo fratello Pietro Francesco dei beni di Brignano e Pagazzano "[14]. In seguito a tale divisione il “Castrum de Pagatiano” toccò a Sagramoro II Visconti, signore di Brignano ma vi fu un'ulteriore divisione tra gli stessi fratelli in merito al fortilizio pagazzanese che fu- di fatto- diviso a metà da un'alta muraglia tutt'oggi esistente all'interno della corte. Il muro è provvisto di feritoie e punti di osservazione tipici del periodo militare del castello. Il successore di Francesco Sforza, il figlio Galeazzo Maria (1444-1476), consolidò la stima e la collaborazione ai due fratelli Visconti ai quali nel 1470 concesse formalmente in feudo l’antica signoria di famiglia, Brignano Gera d’Adda; l’investitura concedeva la facoltà di nominare un podestà con mero e mixto imperio su Brignano e Pagazzano. Dalle investiture sforzesche – confermate in ultimo da Ludovico Sforza (1452- 1508) detto il Moro, nel 1498 - si avviarono le due linee della famiglia Visconti feudataria di Brignano e Pagazzano, che condivisero la dignità per molti secoli.
Se i nomi di Francesco, di Galeazzo Maria e Ludovico Sforza ci suonano quasi familiari perchè riportati sui libri di testo e nelle guide turistiche dei molti possedimenti sforzeschi lombardi (e non solo), probabilmente pochissimi conoscono i due cavalieri Visconti di Brignano e Pagazzano che furono a loro assai vicini, ricevendo molti incarichi di fiducia e di responsabilità. La lista dei loro ruoli presso la corte ducale milanese è veramente lunga [15]. In questa sede ci interessa analizzare uno stemma in particolare, perchè è arrivato fino a noi in duplice versione: affrescato nel Salone del Palazzetto e scolpito sull'architrave del bellissimo camino.
Per far comprendere il quadro, va detto che all'interno del Salone del Palazzetto- seppure desolatamente intonacato- sono stati scoperti alcuni lacerti di affresco che si sono rivelati estremamente interessanti: si tratta di quattro stemmi o più propriamente di "imprese" araldiche, che come GCC stiamo studiando. Non sappiamo se il resto delle pareti ne celino altri (in tal caso si potrebbe ipotizzare che questa fosse una "sala degli stemmi" dove trovavano posto i blasoni rappresentativi di personaggi o famiglie importanti per coloro che li avevano commissionati). Il mistero potrebbe essere svelato ripulendo le pareti e riportando in superficie gli affreschi originali ma ciò non è al momento fattibile.
Fino ad ora abbiamo individuato quattro stemmi araldici, così ripartiti: sulla parete meridionale (in alto a sinistra) l'impresa dei Visconti di Brignano e Saliceto; in alto a destra l'impresa di Galeazzo Maria Sforza (il leone galeato con tizzone ardente e le secchie) [16]; sulla parete settentrionale, in alto a destra, lo stemma appartenuto alla famiglia milanese dei Della Croce (di [argento] alla croce piana biforcata alle estremità di [rosso]) e in alto a sinistra quello dei Caccia [uno scudo fasciato d’argento e di rosso], per il quale permane un dubbio (l'illustre famiglia della nobiltà milanese, molto vicina ai Visconti-Sforza, ebbe molti rami che adottarono stemmi simili). Accanto agli scudi araldici si vedono dei lacerti troppo esigui per essere indicativi. Tuttavia ciò che rimane qui e là sulle pareti ci fa ritenere che dovessero far parte di un ciclo illustrativo o narrativo non privo di una certa erudizione. Ma a quando risale? Da chi venne commissionato?
- Nuove considerazioni sull'impresa araldica dei Visconti di Brignano e Saliceto
Torniamo all'impresa di cui abbiamo due esempi nel Salone del Palazzetto: uno - in affresco- è purtroppo mutilo e l'altro, scolpito sul camino, è integro. Si tratta di due imprese costituite da uno scudo [17] inquartato (diviso in quattro parti) in cui nel I e IV vi è la fiamma, nel II e nel III l'ancora (o, secondo alcuni, il rampino inteso come strumento usato in battaglia). Visivamente ci si accorge che i due scudi sono molto diversi tra loro e senza entrare in dettagli tecnici si può dire che spesso gli artisti (specialmente i pittori ma anche gli scultori) non sono sempre stati fedeli alla forma dello scudo o ai colori (smalti) dei blasoni originali. Va però ricordato che in araldica esistono delle regole imprescindibili (da rispettare) e convenzionali. Ad esempio il bianco o il giallo non esistono in araldica, ma vengono usati per sostituire rispettivamente l'argento e l'oro (altrimenti difficili da illustrare).
Nel caso del nostro stemma affrescato, da quale fonte attinse il pittore? Chi glielo commissionò? Al momento queste domande sono senza risposta ma l'iconografia non fu scelta a caso e mostra degli elementi identificatori. Le fiamme (rosso) sono su fondo giallo (quindi oro) e le ancore (azzurro) su un fondo bianco (quindi argento), figure che dovevano rappresentare qualcosa di significativo per il possessore dello stemma o impresa. La forma dello scudo è anche molto importante perchè -se originale- fornisce una prima informazione sull'epoca in cui fu realizzato. Nel caso dell'impresa affrescata sulla parete non vediamo come terminasse lo scudo ma forse è una variante di un tipo denominato "sannitico", in uso tra il XV e il XVI secolo.
In merito all'impresa scolpita sull'architrave del camino vanno spese alcune note perchè la pietra, non avendo colore, non consente ai profani di capire la colorazione di uno stemma, tuttavia esistono degli "stratagemmi" (convenzioni) universalmente riconosciuti in araldica, che dovrebbero consentirne la lettura corretta (non sempre è così), ma non è questa la sede per imbarcarsi nel discorso. Ci limiteremo a notare che la forma di questo scudo sembra ascrivibile al tipo "a cranio di cavallo" detto anche "italiano" (in uso nel XVI secolo), sebbene non rispecchi proprio l'esatta tipologia, caratterizzata dalla presenza di sette o nove sporgenze, due superiori, quattro o sei ai lati e una in punta. È una forma molto usata nei monumenti, particolarmente in Italia ma compare più raramente nelle armi familiari.
Oggi noi osserviamo le due imprese nella stessa stanza (il Salone del Palazzetto), ma un tempo non era così. L'affresco non si è mosso, dal momento in cui fu dipinto (presumibilmente nella seconda metà del XV secolo) ma sappiamo che il camino invece si trovava nell'ala opposta del castello (in una delle sale del Palatium castri) e fu trasferito qui verosimilmente all'inizio del XX secolo. Sappiamo che il maniero fu diviso in due proprietà distinte dal 1465, tra i due fratelli Sagramoro II e Pier Francesco Visconti, i quali eressero anche fisicamente un muro di separazione. Tuttavia abbiamo due imprese identiche in entrambe le proprietà. Questo ci ha fatto riflettere e ci fa tuttora riflettere e chiedere: perchè? Se questa impresa appartenne ai Visconti di Brignano e Saliceto, bisogna capire quando e con chi iniziò questo ramo visconteo e che insegna araldica avesse di preciso.
Gianfranco Rocculi così scrive: "La famiglia Visconti di Brignano e di Saliceto ha origine alla fine del XIV secolo da Sagramoro I, figlio legittimato di Bernabò e Montanina de’ Lazzari che dal padre aveva ricevuto in appannaggio il feudo di Brignano nella Ghiara d’Adda e i beni dei ribelli Foppa. La permanenza in loco dei Visconti, con alterne vicende che li vedranno di volta in volta più o meno in primo piano, si protrarrà fino a sfiorare l’Ottocento. Dal capostipite discese Leonardo, padre a sua volta di Sagramoro II, che originò il ramo di Brignano, e di Pietro Francesco, che originò quello di Saliceto, iniziando una divisione che protrarrà i suoi effetti sino all'inizio del XVIII secolo". Abbiamo dunque a che fare con una casata antica e nobile, che ha lasciato interessanti tracce anche nel castello di Pagazzano, meritevoli di essere maggiormente conosciute e comprese.
Sull'architrave del camino nel Salone del Palazzetto troviamo, centralmente, una splendida insegna viscontea:
Magnifica insegna viscontea, posta al centro dell'architrave del camino (ora nel Salone del Palazzetto)
Il terzo stemma scolpito sull'architrave (ultimo a destra) è uno scudo a testa di cavallo attribuito alla casata dei Barbavara bipartito e così blasonato: D'azzurro, alla torre d'argento fondata sulla pianura erbosa al naturale; col capo d'oro, all'aquila di nero coronata dello stesso (sulla pietra i colori non si vedono). Nel nostro stemma in realtà non vi è una torre ma un castello con due torri. La presenza di questo stemma si riferisce con ogni probabilità ad Eufrosina Barbavara, seconda moglie di Pietro Francesco Visconti, come già accennato (questo riferimento è stato trovato da Manuel Barbieri, membro del GCC di Pagazzano). Non conosciamo la data delle loro nozze ma si sa che ebbero numerosi figli e il matrimonio dev'essere avvenuto sicuramente prima del 1477, anno in cui Pier Francesco fu creato conte di Saliceto. Se ammettiamo il fatto che l'apposizione degli stemmi possa celebrare la loro unione, constatiamo che quello di Pietro Francesco è nella forma identica a quello affrescato nel Salone del Palazzetto (dove risiedeva Sagramoro II, quand'era a Pagazzano). Cerchiamo quindi di mettere al loro posto i vari pezzi di questo puzzle. Spinti dalla curiosità, abbiamo cercato di approfondire la questione. Pietro Francesco Visconti ricevette il titolo di conte di Saliceto nel 1477; di conseguenza la relativa impresa non può essere anteriore a tale data a meno che inizialmente l'impresa non fosse comune sia a Sagramoro II che a Pietro Francesco, entrambi figli, come già detto, di Leonardo Visconti e nipoti di Sagramoro I (figlio naturale di Bernabò e Montanina de' Lazzari). Il ramo esclusivo di Saliceto iniziò con l'investitura del feudo di Saliceto a Pietro Francesco nel 1477 con diritto di trasmetterla ai suoi dicendenti maschi (l'investitura gli fu conferita dalla duchessa Bona e dal duca ereditario Gian Galeazzo, figlio di Galeazzo Maria, che era stato assassinato nel 1476). Nel 1477 Sagramoro II era già deceduto ma qual'era stata la sua impresa araldica? Purtroppo di lui ci sono scarse notizie in letteratura e sulla sua arma ancora meno; tuttavia si suppone che egli (morto nel 1472) fu trasferito nella cappella di famiglia fatta realizzare dal fratello. Seguiamo quindi queste tracce. Sappiamo che Pietro Francesco Visconti morì nel 1484 e, per volontà testamentaria, indicò che gli fosse eretto un sontuoso monumento funebre da collocarsi nella Cappella di San Leonardo all'interno della chiesa "nobile" di Santa Maria del Carmine a Milano [18]. Il sepolcro, di cui fornì dettagli costruttivi, doveva essere eretto dagli eredi entro un anno dal decesso, e specificava che in quella Cappella già riposavano suo fratello Sagramoro II e il loro padre Leonardo [19]. Per questo motivo incaricava anche gli eredi del fratello a contribuire alla manutenzione e al sostentamento della cappella, sulla quale questo ramo dei Visconti esercitò a lungo il proprio patronato; l’esecutore testamentario designato fu il nipote Francesco Bernardino figlio di Sagramoro II, suo condomino nei feudi di Brignano, che divenne l’esponente più in vista della famiglia (Treccani). La Cappella, sfortunatamente, venne distrutta nel 1788, alla soppressione di chiesa e convento. I sepolcri furono smembrati in diversi pezzi che finirono in differenti musei. Sulla scorta delle informazioni disponibili in letteratura, siamo risaliti ai pezzi conservati nei musei americani e di Parigi, trovando qualcosa di molto importante ai fini della nostra indagine.
Nel Musée du Louvre parigino si trovano alcuni fondamentali frammenti indicati come provenienti dal monumento funerario di Pier Francesco Visconti di Saliceto (1420-1484) che - dice la scheda- "Eufrosina Barbo (o Barbavara) aveva eretto per il marito, nella cappella di San Leonardo nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Milano". Non c'è possibilità di errore: è il "nostro" Pietro Francesco Visconti. Fortunatamente la scheda del Museo fornisce le immagini e le notizie a corredo [20]. Abbiamo quindi potuto individuare l'impresa araldica che si trovava sul monumento ed è effettivamente uno "Scudo a testa di cavallo inquartato, avente al primo e al quarto un’ancora a tre punte, al secondo e al terzo la fiamma":
Capitello composito decorato su tre facce; su una di esse vi è il blasone della famiglia Visconti di Saliceto. Provenienza: monumento funerario di Pier Francesco Visconti (conservato in frammenti al Museo del Louvre di Parigi). Si noti che la posizione delle fiamme e delle ancore sono invertite, rispetto ai due esemplari presenti nel castello di Pagazzano
(fonte immagine https://collections.louvre.fr/ark:/53355/cl010094696)
Siamo particolarmente entusiasti di avere rintracciato un reperto che mancava alla nostra indagine! Il capitello è in marmo bianco ed è databile al periodo immediatamente posteriore alla morte di Pietro Francesco (tra il 1484 e il 1485); giunse al Museo del Louvre attraverso un'asta pubblica; in precedenza si trovava nella collezione di Georges G. Barnard (forse dal 1920). Grazie alla descrizione di Giuseppe Maria Fornari nella sua "Cronica del Carmine di Milano" (Milano, 1685) abbiamo una sintetica ma importante testimonianza di come dovesse essere il mausoleo perchè egli lo vide con i propri occhi [21]. Nella sua descrizione non parla mai dei Visconti di Saliceto ma dei "signori illustrissimi Visconti" e descrivendo il sepolcro a sinistra della Cappella trascrisse la dedica che era stata apposta sul monumento, fatta dalla devota moglie Eufrosina Barbavara a Pietro Francesco. Sappiamo inoltre che era firmato dall' autore materiale dell'opera, che fu Tommaso Cazzaniga, in collaborazione con il maestro Benedetto Briosco.
Questo capitello sembra quindi qualificarsi come quello più attendibile per sapere come fosse veramente l'impresa dei Visconti di Brignano e Saliceto. Un altro capitello (RF 2794), sempre proveniente dal monumento funerario di Pier Francesco, reca il biscione coronato su una delle facce:
Capitello decorato su tre facce, su una di esse, lo stemma con il biscione coronato della famiglia Visconti proveniente dal monumento funebre di Pier Francesco Visconti (conservato in frammenti al Museo del Louvre di Parigi)
(fonte immagine: https://collections.louvre.fr/ark:/53355/cl010094695)
Il Fornari ha tramandato che un meraviglioso monumento funerario ("forte, grande, bello e nobile") si trovava a destra entrando della Cappella ma non avendovi trovato un'iscrizione dedicatoria che permettesse di risalire al defunto ivi inumato, ne dedusse che fosse "sicura custodia di qualche gran personaggio della noblissima casa Visconti e antico benefattore di questa chiesa". La critica suppone possa trattarsi del sepolcro di Sagramoro II.
Padre Fornari ha tramandato anche un' altra importante informazione: al centro della Cappella vide "un sepolcro con telaro e lapida di marmo candido ravvivato dal serpe, fiamma e ancòra in essa lapida scolpiti in insegna popria dei signori Visconti". Questa descrizione sembra riferirsi ad uno stemma scolpito sulla lapide pavimentale che però non risulta essere stata recuperato. Gianfranco Rocculi (op. cit.) indica una chiave di volta (serraglia) sul soffitto della navata sinistra dell'attuale chiesa del Carmine di Milano, che presenta i medesimi riferimenti araldici e dà un'indicazione precisa dell'impresa di Pietro Francesco Visconti, che è praticamente identica:
"Inquartato: nel 1° d’argento, al biscione d’azzurro, ingollante un fanciullo di rosso (Visconti); nel 2° e nel 3° d'argento, a quattro fiamme di rosso moventi dalla punta; nel 4° di nero [o di verde], all’ancora d’oro, con tre uncini e una gomena uscente dall’anello, attorcigliata ai lati, dello stesso" (Pietro Francesco Visconti di Saliceto)"
Scudo appuntato, circondato da una ghirlanda di foglie e frutti (chiave di volta della navata sinistra della chiesa del Carmine a Milano).
Arma di Pietro Francesco Visconti di Saliceto (fonte immagine: G. Rocculi, op. cit.)
G. Rocculi aggiunge che è a conoscenza di un altro capitello, situato nel Castello Sforzesco di Milano, posto precisamente nel passaggio sopraelevato che dalla Corte Ducale immette nella Rocchetta. "In quest’ultimo al posto dell’inquartato presente nello stemma nella serraglia, appaiono due singoli stemmi posti su lati contrapposti, uno dei Visconti di Brignano e Saliceto semplificato (Arma: Inquartato: nel 1° e nel 4° di [nero o di verde], all’ancora di [oro], con tre bracci e una fune uscente dall’anello, attorcigliata ai lati e terminante con una nappa, [dello stesso]; nel 2° e nel 3° di [argento], a quattro fiamme di [rosso] moventi dalla punta) e l’altro dei Visconti, espresso dal classico biscione (arma: Di [argento], al biscione di [azzurro], coronato di [oro], ingollante un fanciullo di [rosso]). Ma l'immagine relativa (v. sotto) non corrisponde a quanto descritto: infatti la foto pubblicata dal Rocculi mostra uno scudo inquartato in cui nel I e nel IV vi sono le fiamme e nel II e nel III le ancore (identica posizione che troviamo a Pagazzano). Dovremo ulteriormente verificare magari andando in loco come è nostro modo di procedere!
Impresa del fiammato e dell'ancora dei Visconti di Brignano e Saliceto, su un capitello delle merlate del Castello Sforzesco di Milano
(fonte immagine: G. Rocculi, op. cit.)
In questo scudo le figure sono nella stessa posizione di quelle presenti nelle imprese del Salone del Palazzetto nel Castello di Pagazzano
Abbiamo appurato poc'anzi come fosse l'impresa personale di Pietro Francesco Visconti (perlomeno da una certa data in avanti). Resta da capire che impresa avesse suo fratello, Sagramoro II, che sarebbe stato il primo ad adottare la fiamma e l'ancora (la quale in realtà sarebbe un rampino, arnese di guerra). Il Rocculi racconta infatti che Sagramoro II, nominato tra i capitani di cavalleria catturati durante la Battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440, potrebbe aver visto il rampino nell'insegna di Michelotto Attendolo (1370-1463, cugino del più noto Muzio Attendolo, poi detto Sforza, e padre di Francesco Sforza), che era presente nella stessa battaglia e aver "deciso di assumerne una simile seppur semplificata inserendola insieme al fiammato -altra tipica impresa sforzesca - in un inquartato, seguendo la consuetudine tipicamente lombarda (in uso all’epoca) di utilizzarle negli stemmi, considerandole alla stregua di figure araldiche. Tali imprese, inserite sia nello stemma che nei suoi elementi esterni, venivano concesse quale premio a segnalare legami di dipendenza più stretti con personaggi di provata fede alla corte e riconducibili comunque all’ambito della dinastia visconteo-sforzesca". Da quanto asserito dal Rocculi, si può dedurre che Sagramoro avesse già adottato l'impresa del fiammato e del rampino (ancora). Continua il Rocculi: "In prosieguo di tempo, il fratello Pietro Francesco, costruttore della cappella (di San Leonardo, n.d.r.) forse a seguito di una concessione, avrebbe assemblato il tutto, aumentando la propria arma personale originale, il biscione, formandone così una nuova che sarebbe poi rimasta distintiva delle due linee appartenenti alla vasta stirpe viscontea" [22].
Auspichiamo che tutto questo discorso possa avere chiarito le cose.
- Da Pagazzano all'Ohio (America)
C'è un'ultima chicca, se vogliamo chiamarla così, relativa all'aspetto fisico che poteva avere Pietro Francesco, sulla base di un reperto che faceva parte della decorazione del suo mausoleo nella chiesa del Carmine di Milano [23]. Il monumento funebre consisteva in un sarcofago decorato con rilievi figurati sostenuti da otto lesene; tali rilievi sono sparsi tra i musei di Washington, National Gallery; Kansas City, Nelson-Atkins Museum; Cleveland, Museum of Art. Abbiamo rintracciato online alcuni bellissimi pannelli marmorei con intarsi dorati che provengono proprio dalla tomba voluta dal Visconti e che raffigurano rispettivamente L'Annunciazione e la Presentazione al Tempio (conservate al Nelson-Atkins Museum di Kansas City), L'Adorazione dei Magi (alla National Gallery di Washington) e infine l' Adorazione di Cristo al Museum of Art di Cleveland (Ohio). E' quest'ultimo che ci interessa in particolar modo perchè in esso si vede il committente in atteggiamento di riverenza verso Gesù Bambino e quel committente doveva proprio essere Pietro Francesco, il personaggio calvo e inginocchiato raffigurato al centro dell'opera:
Nel rilievo dell' Adorazione di Cristo (1485 ca) è raffigurato Pietro Francesco Visconti (inginocchiato di profilo, con il berretto tra le mani)
(crediti immagine: Cleveland, Cleveland Museum of Art, inv. 1928.863
https://www.clevelandart.org/art/1928.863)
La descrizione del museo dice in proposito "Pier Francesco Visconti, Court of Saliceto, Adoring the Christ Child. This relief formed part of a public funerary monument in the church of Santa Maria del Carmine in Milan. The military leader and diplomat humbly kneels in profile before the infant Christ in a naturalistic setting, drawing attention to the Holy Family’s humanity and the deceased man’s reverence" (Pier Francesco Visconti, Corte di Saliceto, Adorazione del Cristo Bambino. Questo rilievo faceva parte di un monumento funerario pubblico nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Milano. Il capo militare e diplomatico si inginocchia umilmente di profilo davanti al bambino Cristo in un contesto naturalistico, richiamando l'attenzione sull'umanità della Sacra Famiglia e sulla riverenza del defunto).
E' innegabile una certa emozione, pensando che non si conoscono altri ritratti di Pietro Francesco e soprattutto ripensando che egli frequentò il nostro castello, di cui noi oggi raccontiamo la storia. E' proprio vero che "nessuno è profeta in patria": infatti egli è probabilmente sconosciuto alla maggioranza delle persone del suo antico feudo (Brignano e Pagazzano), eppure i più prestigiosi musei del mondo conservano la superstite memoria di quella che doveva essere la sua dimora eterna, conservandola gelosamente. Dovremmo tutti esserne un po' fieri (o desolati, pensando che quel meraviglioso monumento si trovava a Milano!). Dopo la distruzione della Cappella e lo smembramento dei monumenti funerari in essa contenuti (avvenuto tra il 1787 e il 1796), i pezzi furono conservati da Vercellino Visconti, poi dal Principe di Belgioioso, quindi passarono al principe Trivulzio. Da questi ad Harold W. Parsons al Cleveland Museum of Art, nel 1928.
La Ricerca continua...
[1] La Gera d'Adda (con grafia antica Ghiara, Ghiera, Giarra d'Adda) è una zona della pianura lombarda ricompresa tra il fiume Adda a ovest, il fiume Serio a est e il Fosso Bergamasco a nord, un canale artificiale realizzato sul finire del XIII secolo per delimitare il confine tra Bergamo e Cremona e per secoli linea di confine fra due stati: il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. Il termine dialettale “gèra” (ghiaia) deriva dalla natura morfologica del territorio, caratterizzato da strati fertili e ghiaiosi in profondità, i quali furono trasportati in tempi assai remoti dai due fiumi che lo circondano. I paesi che fanno parte della Gera d’Adda sono accomunati dalla medesima composizione geologica del sottosuolo
[2] Associazione onlus che gestisce il maniero in collaborazione con il Comune di Pagazzano. Dal momento in cui il maniero divenne proprietà comunale, un gruppo di pagazzanesi tra cui Fulvio Pagani (attuale presidente), Fiorenzo Moriggi e altri, si prodigò affinché la struttura fosse tolta dallo stato di abbandono in cui era calata. Si deve al loro estenuante impegno se il castello è diventato una presenza qualificante per il paese, un’attrattiva turistica e culturale che richiama visitatori anche al di fuori della provincia di Bergamo. Il motivo risiede nel fatto che questo castello possiede diverse anime che convivono e si compenetrano, rendendolo tra i più affascinanti della provincia bergamasca
[3] Il maniero è stato tra le location delle riprese del film d’avventura Agadah, per la regia di Alberto Rondelli, premiato con il Nastro d’argento per i migliori costumi. Uscito nel 2017, vanta nel cast attori del calibro di Alessandro Haber, Flavio Bucci, Umberto Orsini, Alessio Boni, Nahuel Pérez Biscayart, Jordi Mollà i Perales, Valentina Cervi, Caterina Murino, Marco Foschi e altri
[4] A tale scopo è nata una recente campagna di raccolta fondi, alla quale tutti possono contribuire a propria discrezione. Per maggiori informazioni è disponibile una sezione all’interno del sito ufficiale del castello: https://www.castellodipagazzano.it/?page_id=4684
[7] Il lago, a volte chiamato mare, era una vasta area acquitrinosa interposta tra i fiumi Adda e Serio e che toccava le province di Bergamo, Cremona, Milano e Lodi. Le esalazioni provenienti dal fondo melmoso, composte da acido solfidrico e altri composti solforati (e probabilmente il gas metano), producevano un fetore pestilenziale, che in alcuni casi poteva rivelarsi mortale per inalazione. Non conoscendo la causa del fenomeno, la popolazione ritenne esservi un animale mostruoso nel lago, il drago Tarantasio, affamato soprattutto di bambini. L’uccisione del mostro fu attribuita, secondo diverse tradizioni a San Cristoforo, Federico Barbarossa, Ottone Visconti (capostipite della signoria milanese) che avrebbe eternato la sua prodezza mettendo il biscione divoratore di uomini nel proprio stemma araldico
[8] Un fortilizio doveva esistere precedentemente: alcuni ritengono vi potesse essere un castello coincidente con l’area dove sorge la Chiesa Parrocchiale dedicata ai SS. Gervasio e Protasio, altri propendono per un castello anteriore al Mille, fondato nella zona dove lo vediamo attualmente, ma non se ne hanno riscontri archeologici né documentali. Una prima fonte scritta che cita il maniero pagazzanese risale al 1186 ed è un Diploma di Federico di Hoenstaufen detto Barbarossa con il quale infeudava ai Visconti le terre della Geradadda. Dopo la sconfitta dell’imperatore, ad opera dei comuni lombardi e alla conseguente Pace di Costanza (1183), i milanesi occuparono alcuni castelli della Gera d’Adda, ivi compreso quello di Pagazzano (che doveva già esistere ma da chi era stato costruito? Chi vi risiedeva a quel tempo?)
[9] Opera muraria a forma di cuneo o di semicerchio, eretta sul davanti di una fortificazione come primo elemento avanzato di difesa e di resistenza
[10] La dinastia milanese dei Visconti ebbe fine con Filippo Maria il quale non ebbe figli maschi e per assicurare una continuità al ducato diede in moglie allo Sforza la figlia naturale Bianca Maria
[11] Marco Carminati, “Il circondario di Treviglio”, Tipografia Messaggi, Treviglio, 1892
[12] Pietro Francesco Visconti (signore di Brignano e Pagazzano e primo conte di Saliceto) sposò in seconde nozze Eufrosina Barbavara
[13] Da Pietro Francesco Visconti, creato signore di Basaluzzo e di Castelspina da Galeazzo Maria Sforza (1466) e primo conte di Saliceto (1477) dipartì – oltre al ramo di Saliceto - un ramo di consignori di Brignano e di Pagazzano che portò ai Visconti Ajmi. I discendenti di Pietro Francesco li troviamo spesso citati in controversie con il ramo visconteo originato da suo fratello Sagramoro II, litigi dovuti per i possessi di Pagazzano e i diritti dell’acqua, per piantagioni e accessi nei rispettivi beni di Pagazzano, e ancora per servitù
[14] Una copia dell’atto è conservata in copia semplice nell’Inventario Silvestri (aggregato al fondo Secco, Sottoserie 3.3., Bibl. Angelo Mai di Bergamo, Carte Estranee: Instrumenti (1320-1821); al n. 812 si legge: “Divisio Vicecomitum”: 1465 giugno 27, Milano, “in porta Romana, parochie S. Johannis ad concham” (San Giovanni in Conca). Divisione tra i fratelli Pietro Francesco e cavalier Sagramoro Visconti, di Leonardo, cittadini di Milano, abitanti in Brignano Gera d’Adda, di possessioni in Pagazzano. Notaio Gabriele de Baruffis, fu Evangelista, di Caravaggio. Atto singolo cart,. cc. 12, num. rec. Segnatura antica: 1100, Lingua: latino, Classificazione 3.3., Segnatura: sec. XIV, 1100
[15] Si veda una sintetica scheda su Sacramoro II e quella del fratello Pietro Francesco Visconti
[16] Molto interessante sottolineare che tale impresa comparve con Galeazzo II Visconti (1320-1378) e fu usata anche da suo fratello Bernabò. Fu poi trasmessa ai suoi successori e ripresa dagli Sforza, tra cui Galeazzo Maria (1444- 1476) che lo predilesse, in particolar modo a partire dal 1466, quando divenne il quinto duca di Milano, sia per la volontà di sottolineare la continuità tra le due dinastie sia per l’assonanza che ne richiamava il suo nome. E’ infatti un esempio di impresa onomastica (simile all’araldica parlante, dove dal simbolo nello stemma - il leone galeato - si desume il nome del detentore poiché Galeazzo in latino è Galeatius). L'impresa fu rispolverata dopo l'assassinio di Galeazzo Maria dal fratello Ludovico (il Moro), come mostra il Codice Trivulziano alla voce “Ludovico Maria (Moro)”, Cod. Triv. 2168, c. 25v
[17] In araldica "scudo" indica il campo su cui si posano le pezze onorevoli, le partizioni e le figure; mentre la descrizione del modo in cui tali moduli, diciamo, si posano sullo scudo, si addossano, si sovrappongono gli uni agli altri, si indica col verbo blasonare (Marcello del Piazzo, "Costruzione, linguaggio e lettura dello stemma" in Insegne e simboli, Araldica pubblica e privata, parte seconda)
[18] Chiesa aristocratica di Milano, scelta dal duca Gian Galeazzo Visconti come luogo per la sua sepoltura. Fu sostenuta e finanziata da Francesco Sforza, da suo figlio Galeazzo Maria, dal cardinale Ascanio Sforza, da Gian Galeazzo Maria ed infine da Ludovico il Moro, e dai consiglieri, ciambellani e cavalieri, appartenenti – i più noti – alle famiglie Simonetta, da Corte, Lampugnani, e Visconti di Brignano e Saliceto (aggiungiamo noi). Ed anche successivamente, la chiesa del Carmine fu cara a tanti nobili casati milanesi, via via legati ai successivi “padroni” francesi, spagnoli e austriaci
[19] Rocculi, Gianfranco, “Reperti araldici nella “chiesa nobile” di Santa Maria del Carmine a Milano” inserito negli Atti della Società Italiana di Studi Araldici, 32° Convivio, Torino, 11 ottobre 2014, Società Italiana di Studi Araldici - S.I.S.A, 2015
[20] RF 2795, Département des Sculptures du Moyen Age, de la Renaissance et des temps moderns, Denon, [SCULPT] Salle 403 - Galerie Michel-Ange
[21] Fornari, Giuseppe, Cronica del Carmine di Milano, pp. 202-204
[22] Rocculi, op. cit.
[23] Per espressa volontà di Pietro Francesco Visconti il suo monumento doveva essere fatto sul modello di quello dei Della Torre in Santa Maria delle Grazie a Milano, che fortunatamente è giunto fino a noi; un’inscrizione del 1483, murata nella parete al di sotto della cassa, rivela essere stato fatto erigere dal questore ducale Giovanni Francesco Della Torre al padre, senatore ducale, a Giacomo Antonio Della Torre, vescovo di Cremona, nonché alla propria moglie e ai figli (Davide Mirabile,"Il monumento funebre di Pietro Francesco Visconti di Saliceto" ne La Chiesa del Carmine a Milano nel Rinascimento, tesi di Dottorato di Ricerca in Storia e Critica dei Beni Artistici, Musicali e dello Spettacolo, indirizzo Storia dell'Arte, Ciclo XII, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Storia delle Arti Visive e della Musica, 2012)
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