Grazie per questa bellissima descrizione dei luoghi che amo
GIORNO 1
Monterosso e Fegina
(Marisa Uberti)
Il nostro punto di partenza, dove abbiamo soggiornato una settimanella, è stato il borgo più occidentale tra quelli che compongono le Cinque Terre: Monterosso, esattamente nella parte nuova, chiamata Fegina, la cui spiaggia è stata classificata tra le 10 più belle del mondo da un tabloid americano. Ed effettivamente è magica…Il nucleo storico sorge alla foce del torrente Buranco.
Giorno 1: alla scoperta del borgo
Una delle prime attrazioni che richiama la nostra attenzione è la Statua del Gigante, ben visibile stando sulla spiaggia e anche ad una certa distanza. Il tratto è chiamato “Spiaggia del Gigante”, come anche alcuni locali. E’ un’opera relativamente recente, incastonata nella roccia a picco sul mare; alta 14 metri e pesante 170 tonnellate, fu realizzata in cemento armato e ferro nel 1910 dallo scultore Arrigo Minerbi, molto famoso a quei tempi per aver lavorato alle dipendenze di Gabriele D’Annunzio. Gli venne commissionata dall’avvocato Giovanni Pastine, nativo di Monterosso poi emigrato in Argentina, dove trovò fortuna e ricchezza. Rientrato nel paese natio alla fine del XIX secolo insieme alla consorte Juanita, determinato a diventare Senatore del Regno d’Italia, volle costruire una sontuosa dimora, dove passare il resto della vita con la moglie e le due figlie. La villa venne progettata dal famoso architetto Rolando Levacher nel luogo dove un tempo c’era la Casa dei Doganieri.
La statua, raffigurante il dio Nettuno, stava davanti alla casa come la prua davanti alla nave. Era dotata di tridente, era possente e sorreggeva una terrazza a forma di conchiglia. Doveva essere uno spettacolo! Il grande Eugenio Montale, che passò molte estati nella villa di famiglia, situata a breve distanza da quella dei Pastine, la descrisse così: “Tre piani alti più di cinque metri ciascuno, con una torre e terrazze e una loggia a colonne e un ponticello e un lastricato decorato come un tappeto turco e le panchine in finto legno e una grande scalinata in marmo di Carrara a tre rampe e perfino un’improponibile copia della Statua della Libertà… e poi le arcate che sorreggevano la scalinata ricoperte di finta roccia e il giardino pensile antistante la villa… un sogno o, per l’architettura razionalista, un delirio![1]”
A vederlo oggi, povero Gigante, senza braccia, mancante di una gamba, del tridente e senza più conchiglia da sorreggere, è quasi commovente. Il capo chino, l’espressione dura, da vicino suscita una strana emozione. Come mai si è ridotto in questo modo in poco più di cento anni? E dov’è finita Villa Pastine? Informandoci abbiamo scoperto versioni contrastanti: dalla sua distruzione in seguito ai bombardamenti del 1943 al suo decadimento in seguito all’abbandono degli eredi dell’avvocato, morto prematuramente. In realtà pare che a restare lesionato da un ordigno bellico fu proprio solo Nettuno, che perse gli arti tutt’oggi mancanti e un pezzo del naso. Si dice che il Pastine avesse avuto un figlio maschio, dopo le due femmine, ma nacque con gravi handicap e la gente ignorante lo derideva. Fu un dolore per lui, unito allo smacco di vedersi preferire un altro, alla carica di senatore, cui tanto aspirava. Morendo, lasciò ingenti ricchezze, che vennero presto dilapidate. La famiglia emigrò ma non ritrovò più l’antica fortuna e la Villa venne venduta al genovese Luigi De Andreis[2] che, nei primi anni Sessanta del XX secolo, l’abbattè per costruirne una nuova, affidando il progetto all’arch. Claudio Andreani. Fu mantenuta solo la Torre, ben visibile ancora oggi mentre il resto dell’abitazione rimane seminascosto dalla vegetazione.
Il Gigante, cui gli esperti non riconoscevano alcun valore artistico, rischiò di venire distrutto ma era ormai divenuto un simbolo per Monterosso. La gente si mobilitò affinché il De Andreis lo mantenesse in situ. Costui accettò e indisse una sottoscrizione, in maniera da coinvolgere gli abitanti nel finanziamento del restauro della statua, e diede l’esempio versando un milione di lire. Ma nessun altro si fece avanti e l’uomo, ormai emotivamente rapito probabilmente dal Gigante di pietra, continuò l’opera di salvataggio, versando nel tempo altri 7 milioni. I lavori di salvaguardia furono accurati: “vennero tamponati i moncherini, per isolare l’armatura in ferro dagli agenti ossidanti. Poi s’ispezionò la spina dorsale e si scoprì che Minerbi aveva saggiamente alleggerito la struttura, inserendo all’interno una specie di ciminiera di mattoni. La statua venne fissata alla parete scogliosa con due travi di ferro”[3]. La terrazza a forma di conchiglia, non più in essere, venne sostituita con una ben più leggera aiuola. Il De Andreis realizzò anche un porticciolo (tutt’ora esistente) nel 1961, uno dei primi porti turistici del Mar Tirreno (anche se siamo in Liguria), che poco dopo diventò il Circolo Velico Monterosso, che attualmente è un grosso fiore all’occhiello per le Cinque Terre. I lavori comportarono lo scavo di una galleria sotto lo scoglio del Gigante, mentre l’ex- Villa Pastine – già degradata – fu demolita del tutto, a parte la torre. La nuova dimora venne chiamata “La Meridiana”[4].
Ai piedi della roccia dov’è situato il Gigante, le onde si infrangono nell’incessante movimento vitale del mare, il vento lo accarezza dolcemente o lo sferza con violenza, la pioggia e il sole lo lavano e lo asciugano da sempre e i turisti vengono a fotografarlo anche dall’altro capo del mondo. Chissà se interessa a qualcuno conoscere la storia che abbiamo voluto ripercorrere con voi, non conoscendola prima di arrivare a Monterosso. Ma se andrete in loco, ricordatevi che quella struttura di pietra non è solo folclore: dietro quella bocca ammaccata c’è la voce di coloro che si sono spesi per farla arrivare fino a noi.
S. Maria Nascente. Proseguendo in direzione est, lasciandoci alle spalle il Gigante, accompagnati da mirabili scorci sul mare e sulla spiaggia di Fegina, abbiamo modo di verificare la trasformazione dell’antico villaggio di pescatori e contadini descritto da Montale nella sua giovinezza, in moderno centro turistico. A sinistra spunta una chiesetta, dedicata a S. Maria Nascente, risalente al 1700 (c’è un bel presepe dei pescatori, sul sagrato), quando la famiglia Saporiti la fece realizzare, annettendola alla propria Villa (oggi proprietà Cavallo). In breve cadde però in disuso e venne sconsacrata; rischiò di diventare anche una villetta. Luigi De Andreis e la moglie Bebe l’acquistarono nel 1961, la fecero restaurare e commissionarono ad Emanuele Luzzati (1921-2007) le due statue ancora oggi presenti in facciata: l’una rappresenta Sant’ Andrea (protettore della famiglia De Andreis), l’altra San Domenico (protettore della famiglia Montale, che era imparentata con i De Andreis). In seguito ne fecero dono alla parrocchia di Monterosso, con la clausola che venisse celebrata la S. Messa ogni domenica. Sul sagrato è allestito, nel periodo natalizio, un caratteristico presepe dei pescatori, in una barca.
La Torre Aurora e il Castello. Ripreso il lungomare incontriamo due curiosi scogli, chiamati popolarmente i faraglioni, delizia per gli occhi e irresistibile polo per incantevoli fotografie da portare a casa…Alta su uno sperone roccioso si trova la Torre Aurora, superstite delle 13 torri che circondavano il paese nel XVI secolo, oggi proprietà privata. Segna il limite del borgo vecchio, quello più antico di Monterosso, le cui origini etimologiche sono ancora incerte. Secondo alcuni deriverebbe dai Rufi (rufus=rosso), cioè la famiglia degli Obertenghi[5], che avrebbe avuto i capelli rossi e che secondo una tradizione avrebbe fondato il Castrum Obertengo, dove la gente di Albareto[6] si sarebbe rifugiata per sfuggire alle invasioni longobarde del re Rotari (643 d. C.). Il Monte dei Rossi sarebbe quindi diventato Monterosso.
Ma imbocchiamo un panoramico passaggio ai piedi della Torre Aurora e saliamo al Colle San Cristoforo, dove si incontra dapprima la statua di San Francesco, poi il convento dei Cappuccini (1619-1623)[7] e, infine, ciò che resta del Castello, tra le cui vestigia si è insediato il cimitero del paese. Dalla spianata su cui si erge la statua del santo di Assisi, si gode di un favoloso panorama sulle Cinque Terre. Poco sopra, sempre salendo la scalinata intagliata nella roccia, si arriva alla chiesa, con la facciata a fasce bianche e scure e la sua architettura tipicamente francescana.
Il finanziatore della costruzione fu il frate e predicatore genovese Gian Fabio Squarciafico e il complesso godette di prosperità fino al 1810, quando Napoleone abolì gli ordini religiosi. I frati dovettero abbandonare il convento e anche se in seguito vi tornarono, lo abbandonarono nuovamente a metà dello stesso secolo. L’edificio era infatti stato requisito per essere adibito a magazzino e poi a lazzaretto. Nel 1894 don Giuseppe Policardi acquistò la struttura e vi risiedette, per poi lasciarla ai Cappuccini, che rientrarono nel convento.
All’interno della chiesa abbiamo trovato il dipinto della Crocifissione, che le guide indicano come opera eseguita dal pittore fiammingo Anthony Van Dick[8] e un bellissimo San Gerolamo di Luca Cambiaso. Un po’ più in alto si trova il Cimitero, che occupa l’area dell’antico Castello medievale. Resta poco della possente fortezza: qualche brandello di mura merlate, tre torri circolari e una quadrata (l’attuale campanile della parrocchiale di S. Giovanni, che vedremo tra poco, costituiva la torre di guardia del maniero).
Si tratta del nucleo più antico di Monterosso, che i Genovesi ampliarono e arricchirono di opere fortificate per difendersi dalle incursioni sarcacene[9]. Adesso c’è il cimitero del borgo in questo vetusto luogo di memorie, un cimitero caratteristico in cui si trova- tra le altre- l’elegante tomba di famiglia di Eugenio Montale (mentre lui, con la moglie, è sepolto a Firenze nel cimitero di San Felice a Ema).
Lo scrittore e poeta veniva spesso a farvi visita e la salita su questo colle gli era cara. Di tanto in tanto il percorso è arricchito dai versi delle sue poesie; ricordiamo che il poeta fu insignito del premio Nobel per la Letteratura nel 1975.
All’interno del Cimitero vi è una piccola chiesetta che probabilmente risale a tempi antichi, seppure si presenti oggi ampiamente rimaneggiata. Sopra il modesto altarino vi è un dipinto raffigurante San Cristoforo.
Il centro storico e le chiese principali. Oltrepassato il tunnel di poche decine di metri che collega Fegina alla parte storica di Monterosso (si può scegliere anche una passeggiata all’aperto, costeggiando il mare), si giunge nell’ariosa piazza Garibaldi, dove un monumento ricorda l’Eroe dei Due Mondi. Sulla pavimentazione del piazzale antistante i portici, abbiamo trovato – con grande sorpresa – alcuni giochi a noi ben noti: un’enorme scacchiera, un filetto (1 m x 1 m il lato più esterno) o Triplice Cinta, il gioco della Campana e il Mondo. Al centro del piazzale sono dispiegate, a raggiera, delle linee rosse equidistanti, riportanti i numeri dall’8 al 16, forse in relazione con una meridiana? Ma quale sarebbe lo gnomone?
Da questa posizione è ben visibile il campanile della chiesa di S. Giovanni, che come abbiamo già detto sfrutta la presenza di una torre appartenente al Castello medievale. La chiesa parrocchiale S. Giovanni[10] ha una splendida facciata con le caratteristiche fasce di calcare bianco e serpentinite nera, un portale strombato in cui si legge la data del 1307[11] e un meraviglioso rosone in marmo bianco traforato (opera di Maestri Campionesi). Al di sopra si notano piccole sculture raffiguranti l’agnello crocifero e i tre monti, simbolo di Monterosso. L’interno è spazioso, con tre navate separate da colonne anch’esse a fasce bicrome come la facciata. Interessante il fonte battesimale del 1360, con bella iscrizione esternamente. L’edificio fu ricostruito in epoca barocca.
Usciti dalla chiesa, a pochi passi sulla sinistra si trova l’Oratorio Mortts et Orationis (S. Maria di Porto Salvo) o della Confraternita dei Neri, nata nel 1642 e così chiamata perché i membri indossavano una veste nera[12]. La chiesa è ora nota come S. Maria Assunta e fu eretta dopo il 1642.. La facciata è singolare ed elegante, è stretta tra due palazzi ed è frutto probabilmente del restauro del 1922. L’interno risulta bisognoso di interventi restaurativi[13], che sono in corso, sebbene la chiesa sia accessibile al pubblico e, anzi, sono a disposizione dei caschetti per chi volesse visitare ciò che gli scavi hanno rimesso in luce, dietro l’abside (con il piccolo contributo di 1 euro). Chiaro che siamo andati a vedere, rimanendone affascinati. Il resto del tempio è interamente dedicato al tema della morte: teschi, scheletri distesi in atteggiamenti di scherno, cartigli con motti dello stesso tipo ammiccano sui cornicioni tra l’unica navata e l’abside; la pianta è ellittica con lanterna esterna centrale. Gli scheletri recano oggetti legati al mondo profano e sacro. Al centro dell’arco campeggia lo stemma della Confraternita e i Tre monti, simbolo di Monterosso.
Una chiesa particolare, che un tempo, con le candele accese nella penombra, a rischiarare i tanti soggetti macabri, doveva avere un’atmosfera illusoria, “dove il simulato e il reale spesso si confondevano”[14]. Questo gioiello del tardo-barocco è sempre stato molto caro agli abitanti; ai due lati dell’ingresso si trovano gli stalli del coro ligneo (qui trasferiti in tempi imprecisati), caratterizzati da figure e volti macabri; a sinistra dell’aula si trova l’altare della Madonna delle Grazie, a destra quello di S. Antonio Abate (ma la nicchia che dovrebbe ospitarne la statua[15] è attualmente vuota, forse il manufatto è in restauro). L’abside è rialzata e per accedervi vi sono alcuni gradini. La volta è a vela.
Il centro storico è delizioso, impostato su strette viuzze su cui prospettano antichi portali, memorie epigrafiche medievali, negozi di vario genere e negozietti di souvenir, bar, osterie tipiche e ristoranti. Non manca niente, c’è la posta, la farmacia, il Municipio…Poco prima della posta, imboccando il Vicolo di Santa Croce, ci imbattiamo nell’Oratorio omonimo o della Confraternita dei Bianchi, nata nel XV secolo. I membri vestivano di bianco e si occupavano dell’ospedale e dei malati; l’Oratorio rimase in funzione fino alla metà del 1600.
E ora a goderci un po’ di relax e meditazione, il mare, il sole, i panorami mozzafiato, struggenti e infiniti, che tanto hanno evocato nei poeti come Montale. Non va assolutamente dimenticato che Monterosso fu pesantemente danneggiata dall’alluvione del 25 ottobre 2011, che causò esondazioni, danni a persone, edifici civili e religiosi e in diverse località limitrofe.
[1] La Villa dei Pastine, considerati dai Montale “i nuovi arricchiti”, metteva forse in ombra quella della famiglia dello scrittore, che quindi non vedeva di buon gusto la casa dei vicini
[2] Cugino di Eugenio Montale
[3] Stefano Massari, “Monterosso/Paesi e Città”, in Doppio Zero, Aprile 2011, https://www.doppiozero.com/dossier/disunita-italiana/monterosso-paesi-e-citta. La descrizione di Montale è contenuta nella sua opera “La farfalla di Dinard”
[4] Per conoscere di più, visita il sito ufficiale del Circolo Velico Monterosso, intitolato a Gigi De Andreis e alla moglie Bebe https://www.circolovelicomonterosso.jigsy.com/la-storia
[5] Effettivamente Monterosso fu feudo degli Obertenghi, per poi passare agli antagonisti dei Fieschi (signori di Lavagna), i signori di Lagnato. Conquistato dai Pisani (1241), il borgo venne ceduto nel 1254 alla Repubblica di Genova
[6] Frazione montana di Monterosso
[7] Un edificio religioso precedente esisteva probabilmente già nell’XI secolo, sul colle S. Cristoforo
[8] Ma in loco è anche riportato che recenti studi non confermerebbero con sicurezza questa attribuzione
[9] i Saraceni riuscirono ad invadere Monterosso nel 1545, con dieci vascelli. Il borgo riportò gravissime perdite e in quell’occasione furono rapite donne e bambini
[10] Fa capo alla Diocesi di La Spezia-Sarzana-Brugnato
[11] Si ritiene la chiesa più antica, fondata nel 1244, forse identificabile con l’antica “Ecclesia Mari”. Il 1307 potrebbe essere la data di completamento dei lavori
[12] Si occupava delle vedove, degli orfani e dell’assistenza ai naufraghi
[13] Il problema maggiore è l’umidità
[14] Marina Cavana, 2004
[15] Proveniente dal distrutto Eremo di S. Antonio al Mesco (di cui parliamo nell'escursione del GIORNO 2)
GIORNO 3: apprezziamo la cucina locale
GIORNO 5: Manarola e Riomaggiore