Le domus ecclesiae, il primo processo, l'incendio di Roma (64 d.C.)
I suoi primi due anni a Roma, Paolo li trascorse vivendo nel proprio alloggio (che abbiamo visto è conteso tra S. Paolo alla Regola e S. Maria in Via Lata) e lavorando per mantenersi; aveva sempre vicino la guardia ma poteva uscire e incontrare fedeli. Ma quali fedeli? Pare certo che gruppi di cristiani già fossero presenti in città ancor prima dell’arrivo di Paolo. Erano fuoriusciti dalle comunità ebraiche e in minore misura provenivano da romani (pagani) convertiti. Inizialmente Paolo – per la sua autorevolezza e cultura - potrebbe anche aver parlato nelle Sinagoghe (voleva conciliare le due religioni) e avere agito alla luce del sole perché i Cristiani non erano ancora oggetto di persecuzione da parte delle autorità imperiali. “I magistrati romani non erano interessati a dispute teologiche di cui non comprendevano né l'essenza né le sottigliezze, e ritenevano dunque opportuno limitarsi a controllare che quelle dispute non sfociassero in turbative dell'ordine pubblico. In tale situazione, sebbene in semiclandestinità, i cristiani cominciarono ad espandersi per il mondo civile” (Gibbon). Era però l’autorità religiosa ebraica a rivolgersi alla magistratura romana affinchè prendesse provvedimenti: “I cristiani, che derivavano direttamente dagli Ebrei, sia da un punto di vista territoriale che come fondamento della fede, ebbero i primi scontri proprio con i Giudei, che mal sopportavano la presenza ingombrante e crescente di questa nuova religione, considerata una setta di miscredenti” (Gibbon). Ricevendo il rifiuto da parte dei rabbini di predicare la dottrina cristiana nelle sinagoghe e altrove, Paolo e i suoi seguaci dovettero ricorrere alla semi-clandestinità in casa di qualche rispettabile ebreo o ebrea convertiti alla nuova religione di Cristo. Presso la chiesa di Santa Prisca sul Colle Aventino gli scavi hanno rimesso in luce straordinari sotterranei, un mitreo e ambienti non ancora aperti al pubblico (infatti ci siamo informati per visitarli ma, al momento del nostro viaggio, non erano accessibili). Al momento in cui scriviamo (dicembre 2024), i sotterranei e il mitreo risultano ancora chiusi temporaneamente. Questi ambienti sembrano appartenere ad una domus di epoca imperiale che potrebbe essere appartenuta a Prisca, figlia di Aquila e Priscilla, che Paolo conosceva già dal suo soggiorno a Corinto e che lo avevano accolto in casa loro. Sotto la chiesa intitolata a Prisca si celerebbero pertanto le rovine della domus romana appartenuta alla famiglia; è possibile che Paolo sia stato invitato nella casa dei suoi amici per predicare e compiere il rito della fractio panis dei primi cristiani (che a quel tempo pare non superassero il centinaio, suddivisi in tre o forse cinque comunità).
Le case di alcuni ricchi romani o ebrei convertiti divennero luogo di riunioni private per piccoli gruppi di cristiani (che erano di estrazione sociale variegata e medio-bassa): qui si diffondeva la dottrina di Cristo, si cenava, si beveva e si spezzava il pane insieme. Non era presente nessun sacerdote. Queste case presero il nome di domus ecclesiae (chiese domestiche). A Roma ne sono state scoperte innumerevoli vestigia sotterranee (specialmente al di sotto delle grandi Basiliche e delle Chiese più antiche dell’urbe).
- Il primo processo di Paolo a Roma (62 d.C. circa?)
Paolo era giunto nell’Urbe intorno al 60 d.C. (secondo alcuni studiosi nel 61) da prigioniero in attesa di subire il processo che era stato intentato a Gerusalemme dai capi ebraici che lo accusavano di avere introdotto dei pagani nel Tempio, come già ribadito all’inizio. Appellatosi al fatto di essere un cittadino romano, Paolo fu così tradotto via mare a Roma e un primo processo dovette risolversi con una assoluzione. Gli Atti degli Apostoli non raccontano nulla degli eventi. Eusebio di Cesarea – che scrisse nel IV secolo d.C. e basandosi su scritti precedenti – riportò che: “Dopo aver sostenuto la propria difesa in giudizio, si dice che [Paolo] ripartì per il ministero della predicazione, ma ritornò una seconda volta a Roma sotto Nerone e vi subì il martirio. Durante la sua prigionia scrisse la seconda lettera a Timoteo, in cui accenna alla sua prima difesa ed alla fine imminente”[1]. A far trapelare questa constatazione è la Seconda Lettera a Timoteo[ii] (4.16) in cui Paolo dice: “Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero; e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen “. Fin qui, Paolo non dice di essere stato nuovamente imprigionato.
- L’incendio di Roma (64 d.C.) e Paolo in catene
Dopo l’assoluzione, che cosa fece Paolo? Qualche autore ha ipotizzato che avrebbe lasciato Roma (sarebbe andato in Spagna?) per poi farvi ritorno, poiché la tradizione cristiana colloca il martirio dell’Apostolo nella capitale dell'Impero nel 67 d.C. Dopo l’assoluzione dal primo processo, che potrebbe essersi tenuto intorno al 62 d.C., Paolo verosimilmente continuò a diffondere la dottrina di Cristo per altri due anni, continuando ad avere avversi i capi ebraici e, di lì a poco, avrebbe avuto tra i Romani i suoi più temibili nemici. Nel luglio del 64 d.C. accadde infatti un evento della massima gravità: l’incendio di Roma. L’imperatore Nerone che fino ad allora aveva mostrato tolleranza nei confronti dei cristiani, iniziò una feroce persecuzione contro di loro, accusandoli di essere i responsabili. Lo fece per trarsi d’impaccio alle insinuazioni politiche che lo calunniavano, spargendo il sospetto che fosse stato proprio lui a fare appiccare le fiamme che distrussero gran parte della città. In ogni caso, oggi la questione sta venendo riveduta dagli storici. Pare accettata la presenza di delatori, di spie tra la nutrita Comunità ebraica (circa 30.000 persone), che avrebbe contribuito a riconoscere i cristiani proprio perché fuoriusciti dalla comunità ebraica stessa.
Per la nostra ricerca, stando a quanto si tramanda, fu in seguito all’ordine di cattura di tutti i cristiani presenti a Roma che Paolo (insieme a Pietro) venne gettato in prigione. Molti Autori antichi – pur senza citare Paolo – furono testimoni dell’incendio e descrissero i Cristiani non tanto come reali colpevoli quanto responsabili di molte altre nefandezze! Tacito scrisse (Annales, XV, 38.1): “Furono dunque arrestati prima quelli che ammettevano la loro colpa, poi, dietro denuncia di questi, una moltitudine immensa, non tanto perché autori dell'incendio, ma per il loro odio del genere umano”. Tra i prigionieri vi era anche Paolo ma questo non è scritto nei documenti storici. Dobbiamo ricavarlo da alcuni passaggi delle Lettere paoline. Al versetto 4.11 della Seconda Lettera a Timoteo – la quale sarebbe stata scritta tra il 64 e il 65 in cattività - Paolo lamenta di essere stato abbandonato da tutti: “Solo Luca è con me. Prendi con te Marco e portalo, perché mi sarà utile per il ministero”. Probabilmente Paolo, chiedendo a Timoteo di far arrivare Marco, gli voleva dare un compito per proseguire l’opera di evangelizzazione. Naturalmente quel Marco è da identificarsi con l’Evangelista, che a Roma avrebbe avuto una propria casa, sulla quale fu costruita la chiesa dedicata a lui (Basilica di San Marco Evangelista), la cui facciata – tra l’altro- ha reimpiegato blocchi provenienti dal Teatro di Marcello.
- Tuttavia, sorge una grossa questione: se la lettera fu scritta in piena persecuzione contro i cristiani (dopo l’incendio di Roma), conoscendo la situazione di estrema pericolosità, è concepibile che Paolo chiedesse ad altri cristiani di recarsi a Roma? Non era certo il momento! Sull'autenticità della Lettera, per questi e altri motivi, gravano dei dubbi (come già accennato)
- Secondo il prof. Guiducci non vi sarebbe stato nemmeno il primo processo (di conseguenza nemmeno una assoluzione) ma solo una prima fase processuale. Al momento dell’incendio di Roma, pertanto, Paolo era ancora sotto custodia cautelare, controllato dalle autorità e la sua cattura fu immediata. “Essendo cittadino romano venne probabilmente convocato dal praefectus Urbi, ascoltò la sentenza di morte, e seguì i soldati che lo condussero verso il luogo del martirio”[iii].
Questa tesi implica che i fatti sarebbero avvenuti molto velocemente e che Paolo sarebbe stato giustiziato nel 64 d.C. Stessa data del martirio di Pietro, ma la tradizione cristiana pone la morte di Paolo tre anni più tardi. In base a questa tradizione, dove sarebbe stato tenuto Paolo dal 64 al 67 d.C.?
[i] Hist. eccl. 2,25,5
[ii] Secondo alcuni autori, questa missiva sarebbe stata scritta in un tempo posteriore alla morte di Paolo, non redatta da lui stesso; per tale ragione si chiama pseudoepigrafa
[iii] “64 d.C.: tra delatori e spie”, Pier Luigi Guiducci, in Storia in Network, 2 maggio 2022 (URL: https://www.storiain.net/storia/roma-64-d-c-tra-delatori-e-spie/
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Pubblicato il 19/12/2024