Le Arche aragonesi in S. Domenico Maggiore:
una rara ed eccezionale collezione di sepolture
non prive di misteri
(Marisa Uberti)
- Il complesso di S. Domenico Maggiore
Il complesso monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli è situato in un’area tra il Decumano Maggiore e quello Inferiore, nel centro storico della città antica. Qui sorgeva infatti Neapolis e abbiamo già visto, parlando dell’obelisco svettante in piazza San Domenico, i segreti che vi si celano al di sotto. Certamente anche la chiesa basilicale nasconde nelle fondamenta rimembranze greco-romane. Non entreremo dalla parte absidale ma dall’ingresso sulla facciata settentrionale. Dobbiamo dire che un ingresso esiste, proprio nell’abside, ma è chiuso; un secondo ingresso è posto più in basso, a livello della piazza, sovrastato da un balcone quattrocentesco recante stemmi dei Carafa, che introduce nel cosiddetto succorpo o Cappella Guevara di Bovino.
Più a sinistra si trova la scala voluta da re Alfonso I di Napoli, che immette nella chiesa di San Michele Arcangelo a Morfisa, collegata internamente al transetto destro della Basilica (di fatto, ne è una Cappella). Questa chiesa risale al 721 d.C. in epoca longobarda; fu gestita, poi, dai monaci Basiliani e successivamente dai Benedettini; dal 1231 passò ai Domenicani. Ma adesso dirigiamoci in vico San Domenico, per raggiungere la facciata rivolta a nord. Per farlo, trovandoci in piazza San Domenico e dall'Obelisco, riprendiamo Via Francesco de Sanctis, ripassiamo davanti a Palazzo e Cappella Sansevero del principe Raimondo di Sangro e imbocchiamo vico S. Domenico. Entro una cancellata si trova la chiesa, quasi nascosta alla vista, preceduta da un cortile.
Le forme odierne sono alquanto diverse da quelle originarie: l’edificio risale al regno di Carlo II d’Angiò (1283), che vi insediò i suoi amati domenicani. Dal 1231 erano stanziati i Benedettini nell’antica chiesa- monastero di S. Michele a Morfisa (oggi cappella inglobata in S. Domenico), ma Carlo II li scacciò (come già aveva fatto altrove, es. alla Sainte-Baume) per imporre la presenza dei Domenicani, che qui posero la loro Casa Madre nel regno napoletano.
L’edificio divenne chiesa della nobità e, più tardi, pantheon degli aragonesi. Dopo vari decenni di lavori, potè dirsi conclusa nel 1324; subì diverse ingiurie come incendi e terremoti. Venne completamente rifatta verso la fine del XVII secolo ad opera dell’architetto Francesco Antonio Picchiatti (lo stesso che lavorò anche all’obelisco, scoprendone le rovine archeologiche sottostanti). Con la soppressione napoleonica, cambiò destinazione d'uso e i frati vennero allontanati. Durante la II Guerra Mondiale venne danneggiata dai bombardamenti e soltanto nel 1953 si pose mano ad un accurato restauro di tutto il complesso riscoprendo, tra le altre cose, gli affreschi del Cavallini. La Chiesa è stata elevata a Basilica Minore nel 1921 da papa Benedetto XV.
Sono tre i livelli sui quali si sviluppa l’edificio conventuale: al piano terra si affacciano il "chiostro delle statue"[1] e la sala dove insegnò Tommaso d’Aquino; al primo piano si trovano la biblioteca, il refettorio, la Sala Capitolare e quella di San Tommaso, nei due piani superiori si trovano gli ambienti privati dei frati domenicani. In origine il complesso era sterminato, dotato di ben tre chiostri, che ne estendevano la superficie fino al monastero di Santa Chiara, tanto per capirsi! Purtroppo due di quei chiostri non sono più visitabili perché il primo (quello di San Tommaso) è diventato nel tempo la sede di una palestra comunale mentre quello grande è sede del liceo Casanova. Tra l’altro questo chiostro ospitava la sala dove visse Giordano Bruno. Il percorso di visita guidata prevede anche la visita alla Cella di San Tommaso d'Aquino, che qui visse a più riprese e vi è conservato il Corocifisso miracoloso del XIII secolo che, secondo la tradizione, gli parlò.
Sotto la mensa d'altare della Cappella dove è conservato il Crocifisso (custodito in una teca) vi è rappresentata la scena del santo aquinate mentre dialoga con il Crocifisso stesso. Dei tre chiostri, a sopravvivere è il chiostro delle statue o chiostro piccolo, che risale al XVII secolo. Abbiamo sentito nomi come quelli di Tommaso d’Aquino e Giordano Bruno, personaggi cruciali per la storia della cristianità medievale. Non furono i soli ad avere legami con il complesso perché questo divenne una scuola teologica di primaria rilevanza in Napoli e costituisce uno dei più grandi e importanti complessi religiosi della città, con la sua arte, storia, cultura e fede. Tra gli alunni illustri ricordiamo, oltre a Giordano Bruno, i filosofi Giovanni Pontano e Tommaso Campanella.
Dell’architettura, delle opere d’arte e delle innumerevoli Cappelle della Basilica non possiamo soffermarci a parlare, data la vastità dell’impresa (facilmente si trovano notizie nel sito web ufficiale). Entrando, il primo ambiente che cattura l’attenzione è quello a destra, l’antica sala in cui Tommaso d’Aquino insegnava (e ancora oggi vi si tengono alcune lezioni di teologia); vi si conservano alcuni libri storici, un bel pavimento maiolicato e, prima di accedere alla sala, fate caso ad un’incisione laterale: ricorda il compenso percepito da Tommaso per le sue lezioni, un’oncia d’oro al mese.
La chiesa è liberamente visitabile e suggeriamo di prendersi del tempo perché è dotata di 27 Cappelle, opere d’arte, statue, sepolcri, ecc. Noi ci dirigiamo nella Sagrestia, locale che –nelle chiese normali- è spesso trascurato dai visitatori (se non chiuso e interdetto al pubblico, molte volte). Ma non qui, dove la Sacrestia non è certo un ambiente come gli altri, trovandosi il pantheon della dinastia aragonese.
- La Sacrestia e le Arche Aragonesi: singolari sepolture di una dinastia
Per accedere alla Sacrestia è necessario essere accompagnati dalla guida e avere un biglietto a pagamento (si fa in loco), che vale indiscutibilmente la pena di acquistare. Appena varcata la soglia della Sacrestia si rimane interdetti anzitutto dalla raffinatezza dell’ambiente e poi da ciò che custodisce. L’aspetto attuale è quello conferito nel XVIII secolo; lungo il perimetro della magnifica sala corrono, in basso, armadi in legno di elegante fattura, realizzati da Giovan Battista Nauclerio (regista di tutta l’architettura interna e delle suppellettili), mentre la volta fu affrescata da Francesco Solimena con un dipinto intitolato “Trionfo della Fede sull’eresia per opera dei domenicani” (1707). Marmi policromi, stucchi, intarsi popolano l’atmosfera mistica della Sacrestia: sono trasformazioni settecentesche volute per “ammodernare” la sala che accoglievi il pantheon reale. Ma dov'è questa necropoli?
Alziamo lo sguardo e sul ballatoio ("passetto dei morti"), a circa 4-5 m di altezza, scopriamo la presenza di qualcosa di stupefacente, che la guida ci spiega: 42 bauli contenenti i corpi di nobili della famiglia d’Aragona, tra cui dieci re e dignitari. Un’ insolita maniera di farsi inumare, e che costituisce un unicum al mondo! I bauli sono fatti di legno, hanno dimensioni diverse (a seconda che vi fosse sepolto un uomo, una donna o un bambino); sono tutti ricoperti di sete e broccati di colore diverso.
Gli Aragonesi conquistarono il Regno di Napoli nel 1442 e vi regnarono fino al 1501. Questo è il loro pantheon ma i feretri non si sono trovati sempre qui sul ballatoio della Sacrestia. Pare che in origine fossero sparse per la Basilica, poi il re Filippo II di Spagna le fece riordinare nel coro, dove si trovavano fino al 1590. Da lì, nel 1594, furono spostate qui in Sacrestia per evitare i frequentissimi incendi a cui la chiesa era esposta. Alcuni dei bauli hanno accanto il ritratto del personaggio che vi fu deposto, altri recano una targhetta con il nome. Alcuni sono anonimi. Nel baule funerario di Alfonso I di Napoli (il capostipite della dinastia) non c’è il suo corpo: esso fu traslato nel 1666 nel monastero spagnolo di S. Maria di Poblet in Catalogna. Nei bauli che furono aperti sono stati trovati corpi mummificati in eccezionali condizioni di conservazione; importante è il corredo ritrovato: abiti damascati, veli, cuscini in seta, pugnali e stemmi della casata aragonese e di alcuni nobili appartenenti alla corte.
Purtroppo non si può accedere direttamente ai bauli: li si osserva, incuriositi, dal basso. Esiste chiaramente una stretta scaletta di accesso che un tempo qualcuno ha avuto il privilegio di calcare per raggiungere da vicino i curiosi sarcofagi, ma oggi nuove regole lo vietano. Scrive Sergio Lambiase[2] che i bauli non avevano serratura e si poteva sollevarne il coperchio. A lui capitò più volte di farlo e contemplare la mummia di Ferrante (figlio di Alfonso I), di Isabella d'Aragona, di Fernando Francesco d’Avalos, dei principi bambini…Tutto questo senza che nessuno gli intimasse di scendere (i frati chiudevano un occhio). I corpi “erano adagiati su letti di resina, foglie e argilla; erano ricoperti da una patina verde, come di muffa o di licheni affioranti. C’erano elementi di attrazione, seduzioni che non si possono dimenticare”, scrive Lambiase.
Ci sembra di vederlo, in quelle intrepide azioni, i suoi ricordi sono preziosi per noi. Per di più egli, per il suo lavoro di giornalista, nel tempo ebbe modo di scoprire e raccontare altre imperdibili chicche. La nostra guida, tuttavia, è molto brava e ci riporta al presente; dice che gli abiti che fasciavano le mummie sono stati tolti e collocati in appositi armadi e cassetti dell’attigua Sala del Tesoro (qui un tempo vi si conservavano gli oggetti più preziosi, in gran parte dispersi), che tra poco visiteremo. La curiosità verso le arche è però superiore a tutto: perché gli Aragonesi decisero di avere nei bauli da viaggio la loro ultima dimora? Concettualmente non siamo stupiti perché quando si parte si prepara la valigia, ovvero un baule. E loro scelsero di partire per l’aldilà come affrontassero un viaggio.
Osserviamo i bauli, uno per uno, fin dove può spingersi l'occhio: quelli sistemati sulla balaustra della controfacciata sono ricoperti da stoffa bianca, non colorata come gli altri. La nostra guida ci spiega che appartengono (partendo da sinistra) al re Alfonso I di Napoli (non più nell'arca perchè traslato in Catalogna), a quello di suo figlio Ferrante I (o Ferdinando I, + 1494) e a quello del pronipote re Ferrandino (o Ferdinando II), morto forse nel 1498. Quello colore avorio appartiene alla regina Giovanna IV, morta nel 1518. DI alcuni bauli si conoscono esattamente i rispettivi "occupanti" di altri no, come vedremo. La datazione al radiocarbonio e la dendrocronologia hanno sicuramente identificato 18 individui, altri nove sono stati identificati in modo incerto (tutti e 27 in deposizioni primarie); per 4 individui manca l'identificazione perchè si tratta di deposizioni secondarie o rideposizioni. Sono stati esplorati 38 sarcofagi (8 erano vuoti e uno conteneva due corpi). Il tutto desta una certa impressione...
- Le analisi scientifiche
Leggiamo ancora qualche passo di Sergio Lambiase, il quale un giorno (si era negli anni '80 del secolo scorso) – capitando nella sagrestia per scrivere un articolo- vi trovò dei medici[3] “con tanto di guanti e mascherine”. Inizialmente restii a far salire lui e il fotografo sui ballatoio, li accolsero poi nella stanzetta di fianco alle arche, dove si trovava un tavolo anatomico: stavano conducendo una serie di analisi sui corpi mummificati per capirne i motivi del decesso, tra le altre cose. L’aspetto anatomo-patologico è uno dei più interessanti perché di questi personaggi è giunta documentazione e quindi incrociare i dati storici con i reperti paleopatologici è assai importante. Prima di effettuare lo studio degli individui in S. Domenico Maggiore, mummie di questo tipo erano note solo nelle Catacombe dei Cappuccini di Vienna (dove sono sepolti membri della famiglia reale asburgica).
Lo studio delle mummie, naturali e artificiali, della Basilica domenicana (risalenti al XV-XVII secolo) ha permesso di ricavare informazioni sulle tecniche di imbalsamazione in epoca rinascimentale, che sono risultate assai complesse e denotano una lunga ed estesa consuetudine (Fornaciari, 2008). Sono stati esplorati in tutto 38 sarcofagi, 8 dei quali sono risultati vuoti mentre uno conteneva una deposizione doppia. Quasi tutte le deposizioni sono risultate più o meno disturbate.
Abbiamo parlato di mummie artificiali, cioè imbalsamate, che costituiscono la parte più cospicua, e di mummie naturali, cioè conservatesi integre senza imbalsamazione e ne sono emerse sette, peraltro in buono stato di conservazione. Quali sono i fattori che hanno permesso una conservazione naturale dei corpi? Forse a) il clima di Napoli; b) la collocazione dei sarcofagi, posti a circa 5 m di altezza vicino ai finestroni della sacrestia; c) particolari condizioni microclimatiche della Basilica di S. Domenico.
Ma c'è dell'altro, qualcosa che i visitatori non vedono e non conoscono: ambienti sotterranei alla chiesa scoperti in anni recenti (come a Monopoli, sentiamo di ricordare). In due ampi locali -dotati di ampi sistemi di ventilazione - gli archeologi hanno riconosciuto il luogo dove avveniva la disidratazione dei cadaveri (scolatura); hanno trovato posti numerari per le salme e spessi letti di sabbia per la raccolta dei liquami. Una pratica, questa, molto frequente nell'Italia meridionale (ma non ne è immune il resto della Penisola). In ambienti simili, detti colatoi, si sono conservate le otto mummie di Monopoli, ad esempio, appartenenti alla Confraternita di Nostra Signora del Suffragio (morte nel 1700 e nel 1800). Sarebbe interessante che un giorno anche i colatoi sotto San Domenico potessero entrare a fare parte nel percorso di visita.
L'analisi scientifica ha permesso un'altra scoperta fondamentale, aprendo la strada a nuove conoscenze: di apprare di cosa si morisse in quel periodo alla corte di Napoli e perchè. Sono stati evidenziati tre casi di malattia infettiva (vaiolo, sifilide venerea, condiloma) e almeno tre casi di patologia neoplastica (carcinoma cutaneo ed adenocarcinoma). E non sono pochi, in una casistica di individui così esigua; il rapporto percentuale con i casi odierni di tumore è sconcertante. Quindi di neoplasia si moriva anche allora (probabilmente non sapendolo o non definendo il tumore con qualche specifico termine). "Gli studi paleopatologici effettuati hanno cosi dimostrato che è possibile applicare a questo tipo di materiali alcune moderne tecnologie biomediche, come l’immunoistochimica, la microscopia elettronica e la biologia molecolare, con risultati di altissimo interesse per la storia delle malattie" (Fornaciari, 2008).
Torniamo al racconto di Sergio Lambiase, e al giorno in cui trovò al lavoro sui bauli il prof. Fornaciari e un suo collega. In quel momento era sottoposta ad esame paleopatologico la duchessa di Vasto, Maria d’Aragona, morta di sifilide. I due medici avevano trovato tracce di treponema pallidum nelle ulcere del corpo, inoltre la nobildonna aveva anche un tumore uterino in fase iniziale. La temibile sifilide fu importata a Napoli dalle truppe di Carlo VIII; in Francia era già diffusa ma non le si dava l’importanza che avrebbe meritato. La promiscuità favorì la diffusione del battere e dall’arrivo delle truppe francesi la sifilide dilagò nell’ambiente cortigiano[4]. I denti della mummia di Maria, stesa sul tavolo anatomico, erano neri: colpa dell’unguento di Mercurio che si adoperava per proteggersi dal morbo (secondo una credenza). Con l’andare del tempo, il mercurio causava l’annerimento dei denti e si cercava di rimuovere tale patina con stuzzicadenti metallici o d’avorio, che però lasciavano il segno sulla dentatura stessa. Tale caratteristica è stata riscontrata sulla mummia di Isabella d’Aragona (la quale probabilmente era affetta anche lei da sifilide).
Ce ne parla anche la nostra guida, rispondendo con garbo e competenza alle nostre domande e definisce sorprendenti i risultati a cui arrivò l’equipe del prof. Fornaciari: oltre alla malattia venerea di Maria d’Aragona, venne scoperto il vaiolo sulla mummia di un bimbo di due anni, ancora attivo! Venne anche compresa la causa della morte di Ferdinando Orsini, duca di Gravina di Puglia: era affetto da un tumore maligno nella regione naso-orbitaria destra (carcinoma basocellulare). Il prof. Fornaciari dimostrò inoltre, nel 1996, la mutazione dell’oncogene K-RAS nel tumore che uccise nel 1494 il re di Napoli Ferrante I di Aragona (chiamato anche Ferdinando I), una scoperta che costituisce tuttora un vero e proprio unicum in Paleopatologia.
Il re aveva 65 anni. Almeno una terza mummia ha rivelato segni di tumore, quella di Luigi Carafa di Stigliano (1511-1576), la cui mummia ha evidenziato tracce di adenocarcinoma del colon in fase iniziale di infiltrazione ed era affetto da iperstosi idiopatica scheletrica diffusa. Antonello Petrucci, segretario di Ferrante I (Ferdinando II), presentava una calcolosi della colecisti. Ma egli fu decapitato perché sospettato di aver partecipato alla “Congiura dei Baroni” (ebbe comunque il privilegio di essere sepolto qui).
Le analisi scientifiche hanno anche stabilito che i membri di casa Aragona erano tendenti all’obesità, alla gotta, al diabete, alla cirrosi, per l’elevato consumo di zuccheri, carni, vino, grassi e proteine animali. Per approfondire vedasi la relazione preliminare del prof. Fornaciari, disponibile qui.
- Segreti ...sotterranei
- Leonardo da Vinci sepolto in uno dei bauli?
Non ce lo domandiamo a caso, ovviamente, ma perchè ne siamo stati imbeccati da un articolo presente nel sito ufficiale della Basilica stessa. Come sappiamo, le spoglie di Leonardo, storicamente, sarebbero state disperse dai Rivoluzionari quando si trovavano ancora nel Castello francese di Amboise, nella Cappella di St. Hubert. Ma, mancando riscontri oggettivi, ogni tanto emergono teorie alternative. Tra di esse, che l'artista riposi in una delle arche della Sacrestia di San Domenico a Napoli. I misteriofili a oltranza penserebbero che potrebbe essere uno dei quattro individui senza identificazione. Quattro individui "rideposti", cioè che riutilizzarono il baule (giacitura secondaria). Viene da chiedersi chi ci fosse al loro posto, prima. Chi si è sentito autorizzato ad occupare un baule funerario degli Aragonesi? A quanto pare, comunque, i quattro anonimi non avrebbero gradi di parentela con la casata (sebbene sappiamo che nelle arche non si trovano soltanto membri della famiglia d'Aragona ma anche alcuni dignitari che lavorarono per loro, ad esempio). Come sarebbe finito Leonardo da Vinci in una delle Arche di questa Sacrestia?; Il mistero sarebbe svelato in un libro di Maike Vogt-Lüerssen, nel quale ipotizza un possibile matrimonio tra Isabella d'Aragona (1470-1524) e il genio vinciano. Seconde nozze, chiaramente, dalle quale sarebbero nati cinque figli, due dei quali sepolti insieme alla madre proprio in queste arche. Aggiunge, forse osando troppo, che potrebbero anche esservi i resti di Leonardo. Un tassello importante è che Isabella sarebbe in realtà la donna ritratta nel celeberrimo quadro della Gioconda, una tesi proposta da Luca Tomio (v. link).. Figlia dell’erede al trono di Napoli Alfonso II e di Ippolita Maria Sforza, fu moglie di Gian Galeazzo Maria Sforza e colta quanto osteggiata duchessa di Milano. Proprio alla corte sforzesca conobbe Leonardo. Fu sepolta nel pantheon della famiglia aragonese, in una delle 42 arche della Sagrestia di San Domenico Maggiore.
Prima di lasciare la Sacrestia e dirigerci nel Museo per vedere i corredi con cui i nobili aragonesi furono inumati, osserviamo l'elegante Cappella Milano, nella parete di fondo, così chiamata perchè voluta da esponenti della famiglia Milano come loro sepolcro; alle pareti laterali sono presenti due notevoli affreschi di personaggi illustri appartenuti a detta casata, i Milano, appunto (opere di Giacomo del Po, 1725); sotto i ritratti vi è una lunga dedica. Il sacello è anche detto Cappella dell'Annunciazione per la scena rappresentata nella pala d'altare, opera di Fabrizio Santafede (1560-1634). L'altare è seicentesco, opera dei fratelli Ghetti.
- Com'erano vestite le mummie degli Aragonesi?
- Il Salvator Mundi
- Il sito ufficiale della Basilica è www.museosandomenicomaggiore.it
- Per approfondire le analisi scientifiche vedasi l'apposita sezione di paleopatologia nel sito dell'Università di Pisa "Le mummie aragonesi in San Domenico Maggiore di Napoli" del prof. Guido Fornaciari
[1] Si chiama così per la presenza di 4 statue provenienti dalla chiesa di San Sebastiano. Qui si trova la scala monumentale in piperno che conduce ai livelli superiori
[2] In “Incontri ravvicinati”
[3] Uno era Gino Fornaciari (Istituto di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Pisa), il massimo esperto di paleopatologia e archeologia funeraria. Dal 1983 al 1987 ha diretto l’esplorazione e lo studio delle mummie delle tombe aragonesi del XV e XVI secolo nella Basilica di S. Domenico Maggiore.
[4] In ogni strato della società ma parliamo di corte, attenendoci nello specifico agli Aragonesi