Ci sono stato diverse volte là, ma sapevo solo della leggenda, anche se non avevo sentito la parte dei colli che si allungano. È stato veramente interessante leggere questo articolo. Il sasso è uno dell'infinità di esempi che dà l'Italia di come il cristianissimo abbia conservato le nostre radici, togliendo la parte cruenta, i sacrifici appunto.
Il Santuario Preistorico in Diocesi Città di Castello
(Giovanni Nocentini)
Il sito di cui vogliamo parlare è conosciuto come “Il Sasso di San Donnino” e si trova in Val di Pierle, non lontano da Mercatale di Cortona ed ancora in territorio umbro e diocesi di Città di Castello, entro i confini della parrocchia di S. Lorenzo a Rubbiano1. Staccandoci dalla provinciale che da Niccone porta a Cortona, circa 3 km prima di incontrare Mercatale, seguendo l’indicazione “Sasso di San Donnino”, una strada a sterro che s’inerpica nelle prime pendici del Monte Rubbiano, ci conduce al piccolo borgo di Vasciano, dal sapore medievale, oggi pressoché disabitato; proseguendo oltre, l’indicazione ci fa addentrare in mezzo al bosco tramite una mulattiera e dopo qualche centinaio di metri si apre davanti a noi uno slargo su un modesto pianoro dove si trova una piccola cappella di metri 3x3, costruita di fronte ad un grosso masso dalla forma irregolare, affiorante dal terreno, che misura circa metri 4,20x4,60 in pianta. È questo il cosiddetto Sasso di San Donnino, situato a 440 metri s.l.m., latitudine Nord 43° 17’ 36.7”, longitudine Est 12° 09’ 41.9”. Dalla pianta irregolare del masso emergono tre protuberanze in rilievo, mentre nella parte più estesa di esso sono state ricavate due scanalature in senso orizzontale e in direzione Nord-Ovest/Sud-Est; una dritta che attraversa per intero la superficie superiore del masso e l’altra a “L” con il segmento più lungo parallelo alla prima scanalatura. Il segmento lungo misura m. 1,70 e quello più corto m. 0,70. Nelle pareti delle scanalature si riconoscono delle tracce a “lisca di pesce” verosimilmente ricavate con un utensile di metallo. La scanalatura dritta presenta una lavorazione per la lunghezza di circa due metri, per il resto della lunghezza prosegue in modo più irregolare, mentre quella ad “L” è scalpellata in tutto il suo sviluppo.
L’analisi della datazione del reperto esula dal presente lavoro; possiamo solo ipotizzare che le tracce di lavorazione potrebbero risalire già ad un periodo arcaico quando si faceva uso del ferro e che la frequentazione del sito potrebbe essere stata anche precedente, per i motivi che in seguito spiegheremo.
Fa parte indissolubile di questo sito una fonte situata lungo la mulattiera, a metri 150 circa, prima di giungere al sito. L’acqua sgorga direttamente dalla roccia del pendio e si raccoglie in una modesta cavità naturale; la fonte è stata, in tempi recenti, inglobata in una piccola edicola con altarino e immagine di S. Donnino.
Il "Sasso di San Donnino"
- Il Santo
Il sito detto “Sasso di San Donnino”, comprensivo di fonte, è conosciuto perché oggetto di grande devozione a San Donnino di Città di Castello, o San Donino, come è chiamato dai fedeli del luogo. Un cospicuo numero di santi con questo nome sono conosciuti, a cominciare da San Donnino di Fidenza, poi un vescovo di Digione ed uno di Grenoble con il medesimo nome, due martiri greci, uno dei quali di Tessalonica, un santo abate irlandese morto poco dopo il 600 come il nostro Donnino (morto nel 610), ed altri di minore importanza. Gli studiosi di San Donnino di Città di Castello attingono le notizie normalmente dalla Leggenda antica tifernate (2) e da un manoscritto di Alessandro Certini (3). Da questi documenti si desume che Donnino era compagno degli illustri santi castellani Florido ed Amanzio e che dopo il decesso di Amanzio, Donnino,
“dispregiando la frequenza degli uomini, et ogni mondana vanità, si iniziò a far vita eremitica e solitaria in una grotta d’una montuosa selva d’un luogo detto Robbiano (…) dove visse molto tempo in grand’austerità di vita nutricandosi di pomi selvaggi e d’erbe, occupandosi nella orazione e nelle continue contemplazioni…” (4).
L’eremita, però, fu scoperto da alcuni campagnoli intenti a raccogliere ghiande, i quali ne divulgarono la presenza, tanto che, da quel momento tanta gente accorse a lui. Donnino, per difendere la sua solitudine, fu costretto a patteggiare con i suoi visitatori, accettando sì, il loro aiuto nella costruzione di un “tugurio” per potervi abitare, ma a patto di ricevere soltanto una o due persone ogni sabato, accettando da loro anche qualcosa da mangiare. Solo così egli poté continuare a vivere per il resto degli anni la sua vita di preghiera e di penitenza. La tradizione attesta in vari modi che la gente, tuttavia, accorreva numerosa a far visita al santo soprattutto per le sue qualità taumaturgiche.
Il dibattito fra gli storici per identificare il “luogo detto Robbiano”, non è ancora concluso (5), ma l’ipotesi più plausibile è che il detto “tugurio”, non sia stato presso il nostro “Sasso”, ma nelle immediate vicinanze del primitivo luogo ove si trovava la Pieve di Santa Maria del Monte Rubbiano. Il luogo primitivo della detta pieve è stato riconosciuto da Angelo Tafi in un casolare fatiscente appartenuto alla famiglia Gnagnetti, in Val di Pierle a circa tre km da Mercatale; lì si trovava l’antica pieve, che fin dal VII secolo era in Diocesi di Città di Castello e nel 1325, con la costituzione della Diocesi di Cortona, passò a detta Diocesi (6). Va detto che, dopo il VII secolo in epoca imprecisata, detta pieve fu trasferita in luogo più elevato a circa 800 metri di distanza da lì, dove oggi si trova la Chiesa di S. Maria della Croce, e che dopo il trasferimento e fino al 29 gennaio 1781 si chiamava Pieve di S. Maria e S. Donnino7. Vicinissimo al casolare Gnagnetti si trova ancora oggi la “fonte” a cui, secondo gli storici, è legata la vita e l’attività taumaturgica di San Donnino, e nelle cui vicinanze vi sarebbe stata la “grotta” o “tugurio” in cui abitava il santo eremita.
Da non confondere con la fonte situata presso il Sasso di San Donnino. Noi, infatti, ci stiamo occupando del sito denominato “Sasso di San Donnino”, distinto dai luoghi ora descritti, situato soltanto a qualche km di distanza da essi, ma in Diocesi di Città di Castello, anche attualmente. Il sito non è attestato da alcun documento; la frequentazione del santo eremita presso il “Sasso” è attestata, invece, da una consolidata tradizione popolare, che gli storici tendono a non prendere in considerazione. Non è facile, in effetti, districare il secolare problema relativo alla residenza di San Donnino, forse in certa misura inquinato da evidenti campanilismi. Da una signora che ha sempre abitato nei pressi del “Sasso” e che vuol mantenere l’anonimato, ho raccolto una consistente parte di questa tradizione popolare. Secondo la sua “fonte orale”, San Donnino di Città di Castello sarebbe originario della Romagna (evidente contaminazione della tradizione che riguarda San Donnino di Fidenza), sarebbe approdato nei pressi dell’antica Pieve di Rubbiano e in un secondo momento, a causa delle troppe visite dei fedeli, si sarebbe trasferito al “Sasso” per vivere più in isolamento. Negli ultimi anni della sua vita, ormai malato e vicino alla morte, il Vescovo di Città di Castello sarebbe venuto a prenderlo dandogli una sistemazione più comoda, onde terminare i suoi giorni (quest’ultima aggiunta intende logicamente giustificare l’assenza della sepoltura presso la località il “Sasso” (8). Di fatto una pia tradizione lega San Donnino al “Sasso” ed è riportata per scritto da don Alfonso Marchesini:
“si dice che S. Donnino spesse volte si fosse recato a far preghiera ed ivi abbia operato diversi miracoli. A conferma di ciò sta che i fedeli malati di reni vanno ad appoggiarsi a quel sasso e guariscono. I bambini malati portati in questo luogo dopo pochi giorni guariscono..." (9).
Una leggenda di forte impatto, relativa ad un miracolo di San Donnino, è giunta oralmente fino a noi; mi è stata narrata dalla anonima testimone, ma nella stessa versione è registrata, credo per la prima volta, nel lavoro di Don Dario Alunno, nativo di Vasciano:
“Nella mappa catastale dell’Agenzia delle Imposte e del Catasto di Città di Castello comprendente S. Lorenzo in Bibbiana e la località del «Sasso» si trova la «via del Fosso del miracolo del Sasso di S. Donnino». Intanto la citazione dimostra che la tradizione ricorda un fatto prodigioso che sarebbe avvenuto oltre un millennio fa. Ma di quale miracolo si tratta? Ai bambini dei primi decenni del secolo, appena trascorso, i nonni raccontavano che S. Donnino faceva l’agricoltore e con i buoi arava i campi pianeggianti non lontani dalla cappella. Dopo il lavoro conduceva le bestie ad abbeverarsi nel fosso sottostante, ma una sera il Santo era molto stanco e non riuscì a condurvele. Le Bestie allora si avvicinarono alla sporgenza che guarda il corso d’acqua, vi si inginocchiarono ed allungarono il collo per circa cinquanta metri ed oltre poterono dissetarsi ugualmente alle acque del torrente. Nel sasso si notano due incavature che si dicono prodotte dai ginocchi delle due bestie” (10).
L’Alunno aggiunge delle notizie interessanti relative al sito in oggetto:
“…gli abitanti del posto (…) sanno che non vi è stato un rapporto tra la Pieve di Rubbiano, o meglio di S. Donnino in Santa Maria della Croce e il «Sasso», forse perché la località si trova in altra Parrocchia e Diocesi o per altri motivi, ma si può anche dire che a memoria d’uomo la Cappella del Sasso è stata gestita a conduzione laica. La gente del luogo, e del circondario, ha mantenuta viva la devozione del Santo. Peraltro solo la tradizione parla del S. Donnino del Sasso, gli storici del passato non ne fanno accenno” (11).
- Le pratiche rituali al Sasso di San Donnino
La signora testimone che ho intervistato e di cui sopra parlavo, ha riferito molte notizie sul nostro sito, da cui possiamo ricostruire dei veri e propri rituali. Più sopra accennavo alla sua “fonte orale”, perché oltre al fatto che molte cose le ha vissute personalmente, per il resto essa ha dichiarato di avere appreso le notizie dalla suocera molto anziana, la quale ha vissuto sempre nel posto e che ora è purtroppo venuta a mancare. Quello che segue è ricostruito in base alle notizie della nostra testimone. Nei testi di Alunno e di Vaiani, che parlano di S. Donnino, è riportata la fonte d’acqua presso la Pieve di Rubbiano, ma non è citata la fonte che si trova 150 metri prima del “Sasso”; per la tradizione popolare, però, essa è così importante da essere associata alle stesse pratiche che si consumano al “Sasso”. L’edicola che la ingloba è stata costruita nei primi decenni del Novecento, da una famiglia, come ex voto per la guarigione della propria bambina. Prima di allora era “aperta” – dice la signora – “e non s’asciuga mai”. Ogni devoto che intende invocare la guarigione di una qualsiasi parte del corpo deve prendere di questa acqua in una bottiglia o altro recipiente, recarsi al Sasso e lavarsi la parte malata; detta parte va poi appoggiata e strofinata nel Sasso e al tempo stesso occorre recitare tre Pater-Ave-Gloria, per avere la guarigione da San Donnino. Va precisato che la morfologia del Sasso è così varia, per incavature e protuberanze, che si adatta ad accogliere ogni parte del corpo, nelle rispettive parti del Sasso: nella protuberanza maggiore, quella che sta di fronte alla cappella, si accosta lo stomaco, nelle due incavature ove si sarebbero inginocchiati i buoi ci si va con le ginocchia; per il mal di schiena ci si adagia su un altro sasso a lato della cappella; per le malattie agli occhi ci sono due piccole coppelle situate sulla protuberanza che si trova vicina alle incavature delle ginocchia, cioè in quella parte del Sasso verso il fosso sottostante (chiamato Fosso del Lupo o di Vasciano, o anche Fosso del miracolo di S. Donnino). Esiste poi uno spazio deputato ad accogliere i bambini, ove essi si devono sdraiare ed è chiamato “culla”: è quella porzione di masso delimitata per due lati dalla scanalatura ad “L” sopra descritta. La descrizione del complesso rituale non è ancora terminata, in quanto tutta la pratica prevede un elemento da cui non si può prescindere: mangiare sul posto. Si deve portare, oltre all’acqua della fonte, il cibo, soprattutto il pane: la sacralità del pane è in qualche modo associata alla sacralità del Sasso. Si deve consumare il cibo sul posto e, al termine del pasto, una piccola porzione di cibo va posta nel luogo ove ci si strofina o ci si adagia con la parte del corpo malata. La nostra testimone ricorda come alcune persone mettevano delle molliche di pane sulla coppia di coppelle che per similitudine rappresentano gli occhi. La consumazione del cibo diventa una specie di “pasto rituale” ed è dimostrata da un racconto riportato dall’Alunno e confermato dalla nostra testimone:
“…nei primi decenni del secolo passato era una donna del posto, «Erzilia» della famiglia colonica Libelli, ad accompagnare i pellegrini al Sasso, a pregare insieme a loro il Santo, accettando qualche piccola offerta e unendosi nel consumare insieme la colazione o merenda sulla bella tavola quadrata di pietra, posta vicina al masso segnato dalle varie incavature, dove si posavano (e si posano tuttora) i colpiti dai diversi mali” (12).
Non è affatto casuale che la signora Erzilia si unisca ai pellegrini per consumare il pasto insieme: fa parte integrante del rito. Lo stesso rito conosce anche un epilogo: i malati che avevano accostato la parte dolorante al Sasso, al ritorno si portano a casa l’acqua della fonte e per tre mattine consecutive devono lavarsi la stessa parte con l’acqua di San Donnino e recitare i soliti tre Pater-Ave-Gloria. Attenzione, però: l’acqua usata non va fatta cadere per terra, ma va raccolta mediante un recipiente e va gettata in un fosso, o torrente, o sorgente, dove “scorre” altra acqua, perché l’acqua di San Donnino “non deve asciugarsi”, deve continuare a scorrere. Da qui la sacralità dell’acqua, il rispetto, la devozione; una fede che spinge il devoto ad osservare scrupolosamente ogni particolare del rito se veramente egli vuole ottenere la guarigione.
La nostra testimone cita due casi di guarigione che sono rimasti emblematici nella memoria della gente: quello della propria suocera che da giovanissima era affetta dalla malattia – pericolosissima per quei tempi – detta “spagnola”; essa fu portata dal babbo al Sasso e, non solo è stata guarita, ma è vissuta fino a 86 anni di età. E il caso di don Anchise Magrini, da bambino affetto da epilessia, condotto dai suoi genitori al Sasso, con la promessa che se fosse guarito si sarebbe fatto prete. E così è stato!
Particolare del "Sasso di San Donnino"
- L’interpretazione
È doveroso ricordare qui il fondamentale lavoro antropologico di Vittorio Dini, che parla anche del nostro sito:
“San Donnino. Specificatamente invocato contro l’idrofobia e i morsi di qualsiasi animale «arrabbiato», il suo intervento si estende anche ad altre forme di guarigione. Il suo culto, associato a quello delle acque, trova nella zona di Mercatale di Cortona (ai confini con l’Umbria) l’espressione più intensa della devozione. Negli stessi luoghi ove il santo compì i suoi miracoli, l’acqua e i sassi sono tuttora impiegati per la risoluzione delle malattie…” (13).
Anche l’indagine dello studioso, condotta “sul campo”, porta ai medesimi nostri risultati: il culto di San Donnino è “associato a quello delle acque” e gli elementi usati a scopo terapeutico sono “l’acqua e i sassi”. Proseguendo, il Dini ritiene che il culto di San Donnino “sia la conseguente trasformazione di un culto protettivo polivalente (dalle appendici materne)” e trova questo culto combinato con quello della “lattazione”, a Palazzo del Pero, con una Madonna del Latte, e a Campogialli, con Sant’Agata (14).
Come interpretare gli elementi che abbiamo a disposizione? Possiamo fare delle ipotesi. La nostra fonte orale asserisce che “San Donnino aveva sempre i bovi e il cane con sé” (la signora mi parla come se avesse un’icona del santo davanti a sé, con i relativi attributi: i buoi e il cane15). Il cane è facile spiegarlo con la sovrapposizione della figura del santo omonimo di Fidenza, invocato nei casi di morsicature prodotte da un cane rabbioso. Così l’Alunno:
“alla Pieve si dava da bere l’acqua nel calice «detto» di S. Donnino ai colpiti da morsi di cani arrabbiati, ai sofferenti da mal di denti o da altre malattie seguendo in tutto i riti del santo di Fidenza…” (16)
I buoi rimandano a quello che è ritenuto il principale miracolo del Santo di Città di Castello, cioè i buoi assetati che, in uno sforzo eccezionale, riescono ad allungare il collo per oltre 50 metri e bere al sottostante torrente. Ma, se analizziamo bene, dov’è l’intervento del santo? Nel racconto, caso mai, sono i buoi che fanno uno sforzo. Il Santo rinuncia a condurli al torrente e poi li aiuterebbe ad allungare il collo per raggiungere l’acqua?! Credo che occorra scavare dietro al racconto leggendario e scoprirvi altre verità. Innanzi tutto è ragionevole pensare che col passare dei secoli alcuni elementi del racconto siano caduti, altri presentati diversamente. Che cosa ci fanno i buoi in un luogo dalle forti connotazioni cultuali? L’unica risposta è che un animale in un luogo di culto è lì per essere “sacrificato”. Nei santuari dell’antichità o di epoche più arcaiche, dedicati ad esempio alla Dea Madre, era prassi sacrificare un bue, o una vacca, o un vitello alla divinità, come rito propiziatorio della fertilità. A Tellus, nelle feste romane dette le Forticidie, si sacrificavano delle vacche gravide (17). Sappiamo che, sia Iside, sia Europa, sono legate alla simbologia del toro. Cerere, la divinità romana dell’agricoltura e delle spighe era festeggiata in vari periodi dell’anno; in particolare, nelle feste dette Ambarvalia, che consistevano in una purificazione rituale dei campi, venivano sacrificati alla dea, un maiale, un agnello e un vitello, dopo che essi erano stati condotti in giro per i campi (18).
Il noto antropologo Alfonso M. Di Nola, in una sua opera, confronta il rituale seguito nei Bouphonia (feste ateniesi che comprendono l’uccisione di un bue come sacrificio alla divinità) con quello praticato nell’isola di Tenedo. Il rituale si propone come rinnovamento istituzionale di un mito di fondazione che sta all’origine, narrato da Porfirio e da Pausania; nella versione di Porfirio si dice:
“…un contadino dell’Attica (…) di nome Sopatro, mentre in Atene si celebrava un sacrificio pubblico, osservò che un bue che tornava dai campi (e per ciò un bos aràtor), si era avvicinato all’altare e si era dato a mangiare e a calpestare l’orzo e le libazioni ivi esposte. Indignato, Sopatro si avvicinò e, tolta una scure dalle mani di un presente che, per caso la stava affilando, colpì il bue…” (19).
Il racconto prosegue dicendo che l’uccisore fuggì a Creta in esilio volontario essendosi accorto di aver commesso un crimine. In Attica sopraggiunse poi una siccità, che secondo l’oracolo della Pizia sarebbe terminata soltanto se fosse stato rinnovato il sacrificio del bue; e soltanto Sopatro sarebbe stato in grado di offrire tale rimedio.
Nella prima parte, il racconto vuole giustificare l’uccisione del bue: perché ha profanato l’altare delle offerte. Un’uccisione deve essere sempre motivata, allora si cerca un pretesto per farlo, anche se l’uccisione è a scopo di “sacrificio”. Il racconto precisa “un bue tornato dai campi”, perciò un bue aratore che aveva terminato il suo lavoro. Nella seconda parte emerge il vero motivo per cui si sacrifica un bue alla divinità: per porre fine alla siccità e ridare fecondità al terreno con le piogge. Ci sono dei forti paralleli con il nostro racconto, in cui i buoi tornano dai campi per avere arato tutto il giorno: anch’essi hanno portato a compimento il loro lavoro. Lo stesso elemento è presente nelle Ambarvalia, dove gli animali che si intende sacrificare hanno compiuto simbolicamente tre giri nei campi. E in tutti questi casi, lo scopo è sempre di natura agricola, per avere la pioggia.
Decodificando la leggenda sul sito del Sasso di San Donnino e attraverso questi nuovi elementi, facciamo un tentativo di ipotesi. Ogni anno nel nostro sito avveniva, da millenni, una cerimonia sacrificale: quando era terminata la stagione dell’aratura (o la stagione dei lavori, in genere), si conduceva un bue al santuario e dopo averlo preparato con abluzioni rituali e dopo aver deposto le offerte – cereali ed altro - sull’altare (il “Sasso” è l’altare sacrificale), il bue veniva ucciso sacrificandolo alla divinità dell’agricoltura, per propiziarsi le piogge e la fecondità della terra in vista dei nuovi raccolti. Le scanalature presenti nel Sasso non sarebbero altro che i vari canali per raccogliere il sangue della vittima. Inoltre, nella parte culminante della protuberanza che contiene le due coppelle relative agli occhi, prima descritte, è evidente una coppella ricavata orizzontalmente: sembra essere stata questa uno dei luoghi del Sasso atti al deposito delle offerte. La divinità dell’agricoltura, è più probabile che sia stata una divinità femminile, una delle molte sfaccettature della Dea Madre, che in varie epoche assume nomi diversi, più recentemente Cerere. Cerere ha avuto molta diffusione nell’Italia Centrale, ma anche altrove, fino all’epoca della cristianizzazione. Spesso, sempre in Italia Centrale, troviamo Cerere affiancata a Dioniso. Una coincidenza curiosa pone delle riflessioni. La Pieve di San Donnino a Maiano, a Palazzo del Pero, in Diocesi di Arezzo, così è nominata nella Visita Pastorale del 24 settembre 1567, condotta dal Canonico “Ugolinus Zafferinus” e redatta dal notaro Mazzi Girolamo: “…parochialem ecclesiam plebem nuncupatam sancti Dionisii sive Donnini de plano Maiani” (20). La chiesa è dedicata a “San Dionigi o San Donnino”. Che cosa significa quella congiunzione “sive”, che in italiano si traduce “o”? Significa che in un certo periodo il santo patrono è stato Dionigi e in seguito Donnino, oppure Donnino è l’altra faccia di Dionigi? Oppure Dionigi, vale Donnino? Il vago ricordo di San Dionigi sembra rimandare all’Altomedioevo, epoca in cui si riscontrano confusioni o sovrapposizioni di figure di santi, omonimi o con nomi assonanti, problemi agiografici molto difficili da districare. Il più noto Dionigi, è il santo vescovo e martire del III secolo venerato a Parigi, che compare nella Bibliotheca Sanctorum assieme a Rustico ed Eleuterio, un prete e un diacono, martirizzati insieme con lui. Carlo de Clercq e Pietro Burchi, redattori della voce “Dionigi, Rustico ed Eleuterio”, una volta acquisito che degli antichi scrittori che parlano di Dionigi, nessuno menziona Rustico ed Eleuterio, spiegano:
“A proposito dei compagni di Dionigi, gli autori, colpiti dal silenzio che circonda per oltre tre secoli i due personaggi (il martirio di Dionigi si suole collocare verso il 270), si sono dati da fare per spiegarlo. Gli uni asseriscono che (…) altri sono convinti che (…). È possibile dare una spiegazione che si presenti più convincente? Crediamo di sì. È noto che il dio Dionysus aveva, tra gli altri epiteti, anche quello di Eleutherius, che significa Libero. Egli simboleggiava la vita della natura e viveva rappresentato mentre, in compagnia di ninfe e satiri, percorreva i campi e le foreste: era dunque un nume rustico, anzi il nume Rusticus per antonomasia. Ora, chi conosce la confusione che sta all’origine di certi nomi di santi non può avere difficoltà ad ammettere che due degli epiteti del dio del vino, personificati, siano diventati compagni del santo vescovo di Parigi che ne portava il nome” (21).
Dionigi è evidentemente la traduzione italiana dell’omonimo dio pagano Dionysus, in francese Denis. A questo punto potremmo supporre la derivazione del nome Donnino da Dioniso, attraverso la mediazione del francese, Saint Denis (sappiamo della presenza dei Franchi in Italia nell’Alto Medioevo, che portano il culto di vari santi, tra cui San Martino). Saint Denis, volgarizzato, in Italia, diventa San Denìno, perché non era concepibile, né in latino, né in volgare una parola tronca; si doveva aggiungere, istintivamente, una sillaba per farla diventare piana: Denì-no (22). Successivamente, con l’uso, la “e” di Denino diventa “o” ed abbiamo San Donino. In epoca più recente, con il raddoppio della “n”, come è avvenuto per altri termini, si giunge a San Donnino, con l’eccezione dell’area di Città di Castello che mantiene una sola “n”: infatti, popolarmente il nostro eremita è chiamato San Donino. Donino, dunque, non sarebbe altro che il diminutivo di Dioniso. Un esempio alla nostra portata, per meglio comprendere questa trasformazione, ci è offerto dal nome Pietro che diventa Pierino: ci sono anche delle chiese dedicate a San Piero o addirittura a San Pierino, eppure il nome di partenza è Pietro anche se esso appare tanto distante.
Con questo, non si vuole mettere in dubbio l’esistenza storica dei vari San Donnino, ma si vuole ipotizzare che questo nome, in qualche modo, porta con sé il ricordo di un’antica divinità. Tra l’altro, sappiamo benissimo che ci sono alcuni santi che non sono altro che la cristianizzazione di un precedente dio pagano: ad esempio Brigit era una dèa celtica festeggiata il giorno 1 febbraio e S. Brigit (Santa Brigitta o Brigida, di Scozia) è festeggiata lo stesso giorno (23). Stranamente, un’altra coincidenza ci porta, se non a sovrapporre, ma almeno ad affiancare San Donnino al suddetto San Dionigi: la Chiesa Cattolica Romana fa memoria di “San Dionigi vescovo e Compagni martiri” il 9 ottobre (24), lo stesso giorno dei due San Donnino, di Fidenza e di Città di Castello! Anche San Dionigi l’Areopagita, convertito da San Paolo, è festeggiato il 9 ottobre. E addirittura il 9 ottobre diventa una data di riferimento per gli agricoltori. Infatti, durante una conversazione che ho avuto con Giovanni Vaccarecci di 69 anni residente a Palazzo del Pero, nella quale egli mi dava molte notizie sulle vecchie tradizioni locali, mi diceva che nel passato si iniziava la vendemmia il 10 ottobre, sottolineando “non prima”, quasi che iniziando prima si commettesse un sacrilegio. Perché proprio il 10 ottobre? Mi sono chiesto. La risposta è subito venuta: il 9 ottobre si festeggiava San Donnino e subito dopo si iniziava la vendemmia, quasi ad affidare a lui la buona riuscita del raccolto! Dioniso è il dio della vite e del vino ed anche dell’agricoltura in generale e della natura. Niente di strano, dunque, se in epoca cristiana, si continua ad affidarsi ad un santo, dal nome che ha una certa assonanza con l’antica divinità a cui ci si affidava per gli stessi motivi.
Ma allora, che cosa è avvenuto al tempo di San Donnino? Qui occorre aprire una parentesi per comprendere un aspetto della cristianizzazione delle nostre terre al tempo di Donnino. Soprattutto, da Papa Gregorio Magno (590-604) in poi, si preferiva non combattere direttamente il paganesimo: sarebbe stato grande l’impatto con gente troppo abituata a rendere omaggio a divinità pagane della fertilità del suolo, protettrici dei raccolti, importanti per un’economia di sostentamento in periodi di crisi non sempre facili da superare. Era comunque più consigliabile sfruttare le somiglianze esteriori dei riti nelle varie stagioni dell’anno e adattarle alla nuova religione, così che riti e culti delle antiche divinità passavano gradualmente al cristianesimo, magari sostituendo la venerazione per gli antichi dèi, con la devozione a quei santi cristiani che più potevano avere attinenza con essi. Franco Cardini citando una famosa lettera di Papa Gregorio Magno agli evangelizzatori dell’Inghilterra, riferita da Beda il Venerabile, espone la prassi della Chiesa di quei secoli: distruggere sì gli idoli, ma mantenere i luoghi di culto, dopo debita purificazione.
“Anche le feste tradizionali andranno mantenute, per esempio modificando il sacrificio di animali in banchetto celebrato nel giorno dedicato al martire cui la nuova chiesa è dedicata” (25).
È importante sapere che il ”banchetto” in ogni caso restava, anche nella nuova prassi religiosa, oltre, naturalmente, alla celebrazione eucaristica, perché il motivo del “banchetto”, anche se ormai svilito dei suoi significati, è rimasto presso il “Sasso”, come abbiamo visto.
“Altre usanze ereditate direttamente dal paganesimo, e condannate da S. Cesario (Vescovo di Arles), consistono nello sciogliere voti presso le fonti, gli alberi, e i luoghi di culto dedicati a varie divinità, presso cui si immolavano animali, le carni dei quali venivano poi mangiate (…) Queste consuetudini erano destinate ad avere un seguito anche nei secoli successivi” (26).
Il “Sasso” rappresenta uno di questi baluardi di paganesimo destinati a perdurare, magari con forme sempre più diluite con il passare dei secoli: è evidente come del “banchetto” sia rimasto oggi un labile ricordo, che tuttavia va saputo leggere tra le righe di una “merenda” consumata nel posto, in forma conviviale, e i cui residui vengono poi posti in cavità del Sasso deputate allo scopo. Uno dei motivi per cui al Sasso persistono fino ad oggi certe pratiche è il fatto che il luogo sia sempre stato gestito a livello laico, come è stato detto, quasi che la Chiesa lo avesse disdegnato fin dall’inizio, prendendo le distanze dal sito, magari con qualche minaccia di scomunica verso il proprietario del territorio. La Chiesa doveva sempre cercare di mantenere un equilibrio, a volte tollerare e trasformare, ma a volte anche vietare; lo studioso Fabrizio Nicoli precisa che il canone XXIII del Concilio di Arles II invitava i vescovi ad estirpare con decisione dette usanze pagane, citando espressamente l’usanza di venerare “arbores, fontes vel saxa” (27). Le fonti e i sassi, connotano il nostro sito.
Per fare ulteriori paralleli con il nostro “Sasso” voglio riportare due esempi. Il primo è il Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, presso Lubaco, nel Comune di Pontassieve. Qui ogni anno, fino a pochi decenni fa, avveniva un rito chiamato la “Bifolcata”:
“Questa festa (che prende il nome dal latino bubulcus= bifolco, chi ara e lavora la terra coi buoi e ha cura del bestiame) si svolgeva presso il Santuario del Sasso nell’ultima domenica d’agosto. Dopo la festa della seconda domenica di maggio, i popoli sorteggiavano un capofamiglia affinché acquistasse un bel giovane manzo (la cosiddetta "bestia della Madonna") da ingrassarsi e poi mangiarsi da tutti al Sasso per la fine dei lavori agricoli. Ogni cura veniva riservata all’animale, che dalle donne di casa veniva addirittura agghindata con lana rossa per il venerdì avanti la Bifolcata. Nel pomeriggio di questo giorno infatti la bestia veniva spinta fino al mattatoio del santuario, ove l’aspettava un rappresentante del popolo di Remole a cui per tradizione spettava il compito di compiere il sacrificio. Richiamati dal suono delle campane, salivano al Sasso i fedeli recanti appositi recipienti per la raccolta del sangue dell’animale. Nel macello la bestia veniva saldamente assicurata con dei canapi e legata per le corna: essa veniva tenuta con la testa piegata a terra e le zampe legate ai ganci delle pareti. All’atto dell’ammazzamento assistevano i festaioli (cioè gli amministratori dell’Opera), mentre il popolo accalcava all’entrata. L’animale veniva ucciso, tirato alla trave, veniva poi scuoiato e squartato. Il sabato si assegnava una parte delle carni dell’animale alla cucina, e l’altra parte si teneva al macello, ove venivano cotte nel focolare ivi esistente. Era tradizione infatti che nessuna parte della bestia venisse portata via cruda dal Sasso: essa era cotta per intero, e ciò che non era destinato al pranzo dei bifolchi era venduto ai pellegrini che lo portavano la sera a casa ai familiari che non erano potuti intervenire alla festa” (28).
Il contesto in cui si trova il "Sasso di San Donnino"
Possiamo notare molti paralleli con il nostro sito, a cominciare dal nome, santuario del “Sasso”. Il secondo esempio ci viene da Poggio Baralla, un rilievo del Casentino in cui Alberto Fatucchi ha identificato un Mons Jovis sulla scorta di un’usanza che lì vi si celebrava:
“che il Mons Jovis della Visita Apostolica sia Poggio Baralla, la conferma ci viene da un rito, più che un’usanza, durato fin dopo l’ultima guerra. Il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, giovani di paesi e cittadine anche alquanto distanti, come Bibbiena, portavano ognuno dolci e liquori, li consumavano in gruppo ed eseguivano un ballo sul pianoro terminale” (29).
Qui il “sacrificio” cruento è caduto (come nel caso del nostro “Sasso) ed è rimasto solo il “banchetto”, che si può leggere sia nel gesto conviviale del mangiare insieme i dolci e sia nel contesto della “festa” amplificata nel “ballo”; lo stesso Fatucchi ci presenta l’usanza come un “rito”.
Chiudiamo la nostra parentesi e torniamo a San Donnino. Il nostro eremita, discepolo di santi delle spessore di Florido ed Amanzio, che ha voluto vivere il cristianesimo in maniera radicale, si sarà rattristato molto al vedere che in quel luogo avvenivano cose simili e si sarà molto dato da fare a convincere la gente che ivi accorreva per dire loro che il dio da adorare è il Dio creatore che ci ha rivelato Gesù Cristo e al quale vanno rese grazie per la vita e il sostentamento. Forse egli non ha ottenuto il massimo, ma almeno il risultato di abolire per sempre il sacrificio animale da quel luogo che a suo modo era sacro. Il vero “miracolo” del santo eremita sta proprio in questo e lo si può leggere tra le righe: il racconto dei buoi assetati, inginocchiati sul sacro Sasso erano pronti per essere sacrificati, ma quella volta l’intervento deciso e persuasivo di San Donnino li ha risparmiati. Nel racconto è caduta la menzione del sacrificio ed è rimasta l’immagine dei buoi che allungano il collo col desiderio di bere. L’allungamento del loro collo oltre ogni immaginazione, sta ad indicare il lungo tempo che Donnino ha impiegato per lottare e persuadere la gente fino a sottrarre loro le povere bestie, le quali alla fine, dopo lunghissime ore, se non dopo un’intera giornata, hanno potuto dissetarsi al fosso sottostante. Quando, in qualche circostanza, l’ora del pranzo è molto rimandata, si dice in gergo popolare: “Oggi abbiamo fatto il budello lungo!” Così è plausibile che una lunga attesa che rimandi l’abbeverarsi di lunghissimo tempo, sia paragonata all’allungamento del collo (gesto che indica al tempo stesso lo sforzo per raggiungere una possibile sorgente): quel giorno, a quei buoi, hanno fatto fare davvero il “collo lungo” prima di farli bere in pace! Ma così sono scampati al cruento sacrificio, per l’intervento del Santo!
- Conclusione
In sintesi possiamo ipotizzare che il “Sasso di San Donnino” sia stato oggetto di culti fin dalla preistoria, o protostoria; i culti sono riferibili ad una divinità femminile della fertilità della terra, venerata insieme ad una divinità maschile dell’agricoltura e della natura in genere. In tarda epoca romana le due divinità sono identificabili in Cerere e Dioniso. I riti che si svolgevano al Sasso prevedevano il sacrificio di un bue, o un vitello, una volta all’anno, con consumazione della vittima nel sito, in un banchetto rituale. Si possono ipotizzare anche riti di abluzione con acqua, seguiti da offerte, soprattutto di pane, o cereali. Da fine VI secolo, o meglio inizi VII, il sacrificio cruento cessa e resta tutto il resto.
Resta il fatto che ad un santuario di questo tipo si ricorra, come sempre si è ricorso, per motivi terapeutici, in quanto il sito presenta una forte valenza in questo senso, soprattutto per l’elemento acqua (culto delle acque) e l’elemento sasso (culto delle pietre), come in tanti altri luoghi terapeutici.
La venerazione di San Donnino, il santo eremita di Città di Castello, presso il Sasso, è la sostituzione, fin dal VII secolo, di un precedente culto a Dioniso.
Note:
1 Ringrazio l’amico Ermanno Bianconi per avermi segnalato il sito.
2 Codice conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze.
3 Città di Castello, ASDCC, Archivio Capitolare, n° 43: CERTINI Alessandro, Raccolta de’ Notabili per le vite de’ Santi, Beati e Servi del Signore da Città di Castello, parte prima, 1734, cc. 87ss.
4 CERTINI A., Op. cit., c 88.
5 Per questa tematica vedi i lavori di: CERTINI A., op. cit.; MILLOTTI G. B., Storia della Val di Pierle, copia dattiloscritta, Lisciano Niccone, 1891-1894; ALUNNO D., La scomparsa Pieve di Rubbiano e il santuario di S. Maria della Croce in Val di Pierle, a cura di Claudio Lucheroni, Cortona, 2002; e soprattutto VAIANI C., Donnino contemporaneo dell’avvenire, Museo del Duomo, Città di Castello, 2004, il quale riassume sinteticamente quanto dicono i precedenti.
6 ALUNNO D., Op. cit., p. 54.
7 ALUNNO D., Ivi, pp. 58-59 e pp. 156-159.
8 Per il problema riguardante la sepoltura del santo, vedi ALUNNO D., Op. cit., pp. 77-79 e VAIANI C., Op. cit., pp. 79-81.
9 MARCHESINI A., Liber Cronicus, manoscritto, Archivio Curia Vescovile, Cortona, c. 6.
10 ALUNNO D., Op. cit., pp73-74.
11 ALUNNO D., Ivi, pp. 74-75.
12 ALUNNO D., Ivi, p. 75.
13 DINI V., Il potere delle antiche madri, Boringhieri, Torino, 1980, p. 128.
14 DINI V., Ivi, pp 128-129.
15 Il cane è un attributo del Santo di Fidenza passato anche al nostro, ma i buoi non compaiono mai nell’iconografia di San Donnino.
16 ALUNNO D., Op. cit., p. 76.
17 SECHI MESTICA G., Dizionario Universale di Mitologia, Rusconi, Milano, 1994, Voce: Tellus-Tellure, p. 168; Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1950, Voce: Tellure, Vol. XXXIII, p. 443.
18 Cfr. Enciclopedia, op. cit, voce: Ambarvali, vol.II, p. 779.
19 DI NOLA A. M., Antropologia religiosa: introduzione al problema e campioni di ricerca, Vallecchi, Firenze, 1974, p. 204.
20 PIERI S. – VOLPI C., (a cura), Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, Visite Pastorali dal 1521 al 1571, Servizio Editoriale Fiesolano, Fiesole, 2008, p. 462.
21 Ivi, coll. 652-653.
22 Questa prassi è durata fino ai nostri giorni: i nostri anziani erano soliti aggiungere una “e” alle parole tronche per renderle piane. Es: Libertàe, caffèe.
23 Cfr. CAPPELLI A., Cronologia, Cronografia e Calendario perpetuo, Hoepli, Milano, 1998, p. 160.
24 Messale Romano, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1983, p. 598. La nota storica del Messale ricorda anche “Rustico ed Eleuterio” e aggiunge, riguardo a Dionigi: “La sua «deposizione» il 9 ottobre è ricordata dal martirologio geronimiano (sec. VI)”.
25 CARDINI F., Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1979/1986, p. 14.
26 NICOLI F., Cristianesimo, superstizione e magia nell’Alto Medioevo, Edizioni Maxmaur, Bagni di Lucca, 1992, pp. 32-33.
27 NICOLI F., Ivi, p. 20.
28 Pagina del sito web: www.tuscany.name/cornucopia/tradizio/tsasso.htm. L’usanza è citata anche da FATUCCHI A., Un esempio di continuità insediativa dall’epoca etrusca nel Casentino centrale, in Annali Aretini, XII, Arezzo, 2005, p. 45, il quale osserva: “Non c’è dubbio che è la continuazione di un rito pagano”.
29 FATUCCHI A. Op. cit., p. 46.
(Autore: dr. Giovanni Nocentini. Pubblicato in questo sito il 2 dicembre 2014)