Per una lettura simbolico-ermetica

                del complesso di San Pietro al Monte a Civate (LC)

                                                                 (di duepassinelmistero)

              

 

I nostri “due passi” si dirigono oggi verso uno dei luoghi più sublimi che ci sia capitato di visitare fino a questo momento: il complesso abbaziale di San Pietro al Monte a Civate, in provincia di Lecco. Si tratta di due edifici medievali di grande bellezza e importanza, collocati ai piedi del Monte Pedale (vecchio nome dell’attuale Monte Cornizzolo), a mezza costa della cosiddetta Valle dell’Oro: la basilica di San Pietro e l’Oratorio di San Benedetto, che dominano il piccolo lago di Annone, sul versante orientale, e sono circondati da un prato verde, boschi lussureggianti e cime montagnose. Recentemente è stata presentata la domanda affinchè vengano inseriti tra i monumenti Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco.  Dal momento che nel nostro sito ci sono già due articoli che trattano ampiamente sia del territorio dove ci troviamo che della storia architettonica del complesso, discuteremo in questa sede alcuni simbolismi segreti, occulti (non evidenti ad una lettura comune) che sono meritevoli di approfondimento.

 

                Oratorio di San Benedetto                                        Basilica di San Pietro

 

 

  • L’erta salita

 

Per raggiungere il complesso si deve sistemare l’auto o la moto in uno dei parcheggi a fondo valle e intraprendere a piedi la mulattiera che presenta tratti anche impegnativi, all’interno di un fitto bosco. Il percorso è segnalato bene e non vi è alcun timore di potersi perdere, a patto di mantenersi lungo il sentiero. All’inizio diverse mappe consentono di capire dove ci si trova e quali itinerari è possibile scegliere; la nostra meta è ben indicata: si trova a 662 metri di quota s.l.m. Il tempo di percorrenza dipende da fattori individuali (dalle soste che si vogliono fare ad esempio), ma generalmente è necessaria un’oretta di cammino, equipaggiati con scarpe adatte al trekking e un bastone,  macchine fotografiche e/o videocamere ed eventualmente il necessario se si prevede di non scendere a valle tanto presto (acqua, cibo, pila, vestiario per la pioggia, ecc.).

Noi siamo partiti dalla località in fraz. Pozzo, storico nucleo sull’antica Via Bergamo-Lecco-Como; qui si è già a 290 m di altitudine, perciò si deve “solo” arrivare a 660…

Come il pellegrino di una volta, dovremmo impiegare il percorso di ascesa “iniziaticamente”, preparandoci a vivere un’esperienza con il sacro che si rivelerà veramente notevole.

 

  • Le “casote”

 

Lungo il tragitto si incontrano delle caratteristiche “casote”: si può fare un percorso ad anello per vederle tutte (sono dieci), ma se si è diretti come noi a San Pietro, se ne potranno comunque incontrare almeno tre. Si tratta di strutture in pietra (massi erratici di ghiandone e serpentino o blocchi squadrati di calcare) tenuta insieme senza uso di collanti (a secco), che possono avere forma diversa;  la maggior parte presenta una sommità a volta autoportante ricoperta da zolle di erba e terra per evitare infiltrazioni d’acqua. Sono ritenute una rarità in Italia, essendo tipiche dei gruppi montani che ruotano intorno al Monte Cornizzolo, dove ne sono state censite 120. Rivestono grande importanza per la memoria della passata vita contadina: queste strutture furono costruite nel XIX secolo e sono strettamente legate alle attività agricole, così almeno è il loro inquadramento ufficiale. Luoghi di sosta durante la stagione della fienagione, luoghi di riparo in caso di temporali improvvisi, ricovero di attrezzi, ecc. Progressivamente abbandonate, le casote sono state recuperate in anni recenti da apposte associazioni locali ed è grazie a questo loro lavoro di valorizzazione e tutela che possiamo visitarne alcune anche all’interno.

 

                        

            Ingresso della seconda "casota che si incontra lungo la salita

 

  • La sorgente miracolosa

 

Arrampicarsi su questa mulattiera non dispiacerà nemmeno ai più pigri perché la natura saprà regalare una compagnia meravigliosa: boschi ombrosi con una grande varietà di flora e fauna, piccoli corsi d’acqua che d’improvviso si insinuano tra i ciottoli, e una sorgente canalizzata ed usufruibile detta Fonte Fredda. Fu forse proprio a questa sorgente che si bagnò gli occhi Adelchi, il figlio del re longobardo Desiderio? La leggenda alla base della costruzione dell’edificio racconta infatti che durante una battuta di caccia al cinghiale, il giovane avesse inseguito un esemplare che si era rifugiato in una chiesetta già esistente e abitata da un eremita, tale Duro. Il cinghiale se ne stava rannicchiato impaurito vicino all’altare come chiedendo a Dio di aiutarlo; mentre Adelchi entrava in chiesa per stanarlo e ucciderlo con il suo arco, venne misteriosamente accecato e non vide più nulla. L’eremita, allora, gli prestò aiuto e lo condusse a bagnarsi gli occhi alla fontana miracolosa, che gli fece riacquistare la vista. Il re Desiderio – per ringraziare Dio di tale prodigio- ordinò la realizzazione di una grande chiesa, dove avrebbe portato importanti reliquie: quelle degli apostoli Pietro e Paolo. Tutto questo risalirebbe al 772 d.C.

 

        

 

  • Un luogo importante

 

In prossimità del termine della mulattiera si comincia a vedere il profilo di una muraglia e quello absidato di un edificio, ma bisogna salire ancora un pochino fino a giungere davanti ad un arco su cui è presente un epigrafe “Ora et labora” (il motto dei benedettini); il cancello aperto invita ad entrare e ci si ritrova a camminare senza sentire più alcuna fatica! Il magnetismo di un raccolto edificio, l’oratorio benedettino, è troppo forte per resistere e si accelera il passo istintivamente. Girando lo sguardo a destra si domina il lago, in un paesaggio di estrema suggestione, mentre a sinistra si staglia la maestosa architettura della basilica di San Pietro. L’anima vaga alla ricerca di parole ma nessuna è in grado di spiegare cosa succeda davvero: si è ammaliati, si va quasi in estasi contemplativa e si comprende come i monaci avessero eletto questo luogo per pregare, meditare, lavorare, lodando Dio manifestato in tanta bellezza. Le chiese a Lui consacrate non potevano dunque non rispettare fulgore e armonia.

 

                   

 

E’ possibile che prima dell’VIII secolo esistesse già un luogo di culto; personalmente ne siamo convinti, forse c’era una chiesa paleocristiana che si era impiantata, a sua volta, su un primitivo sacello (la leggenda longobarda ci parla di un eremita che era già stanziato qui e di una chiesetta nella quale si era rifugiato il cinghiale). In epoche ancora precedenti il luogo non dovette passare inosservato: poteva trattarsi anche solo di una pietra sacra, un altare, una grotta, un menhir (ancora oggi c’è una stele, forse rimodellata a colonna, sulla quale è stata apposta la croce cristiana), secondo i culti “pagani” delle genti locali che trovavano nella natura e nelle sue manifestazioni l’impronta del divino.

E’ anche possibile che vi sorgesse una fortificazione militare, magari romana?

Ad ogni modo, i monaci benedettini si misero d’impegno e realizzarono un complesso che divenne in breve un centro culturale di grande prestigio.

 

Una lastra presente nel protiro della chiesa di San Pietro ricorda che qui Paolo Diacono stese nientemeno che la revisione della Regola dell’Ordine di San Benedetto; non ci sono documenti che lo confermano ma alcune sue opere come il Carmen Larii , suggeriscono la permanenza del personaggio su questo territorio. Un altro grande intellettuale soggiornò a Civate, Magister Hildemarus, sceso in Italia con un imperatore, Lotario, figlio di Ludovico il Pio.

Per la storia del monastero rimandiamo ad altra sede, ora invece cerchiamo di capire l’orientazione astronomica della chiesa di San Pietro, e poi di quella dell’Oratorio benedettino.

 

  • Archeoastronomia

 

Subito si nota che l’orientazione dell’asse della navata della basilica san pietrina è orientata O-E e che l’abside è a occidente, mentre l’ingresso è a oriente, “al contrario” quindi delle prescrizioni ecclesiastiche medievali, che prevedevano l’ingresso a occidente e l’abside ad oriente, verso il sorgere del Sole (paragonato alla venuta del Cristo-Luce).  Ma a tutto c’è una spiegazione… Pare infatti che in origine la chiesa avesse la sola navata con l’abside ad est, quindi fu “girata”: che cosa successe?

Al posto dell’abside orientale vennero ricavate tre piccole arcate che immettono in altrettanti vani quadrati con volte a crociera (tutte affrescate). I due vani laterali sono separati dall’ingresso da plutei o transenne che recano elementi simbolici di cui tra poco parleremo; fu ricavata così una cappella per parte. Il vano centrale continua invece nella navata, essendo stata realizzata una porta d’ingresso tra le due cappelle.

Il particolarissimo “portico” che precede l’ingresso– è più un deambulatorio esterno che abbraccia la chiesa vera e propria - segue un andamento semicircolare, interrotto da diverse bifore che conferiscono luce ed eleganza. Dall’affaccio di queste aperture si apprezza un incomparabile panorama sul lago e sul territorio circostante. La solenne scalinata che conduce dal prato al protiro è postuma: fu infatti realizzata solo nel XVI secolo. Questo atrio era un tempo chiuso, senza scalone, ed è disposto su due livelli: quello inferiore è relativo alla cripta.

 

          

 

Dobbiamo ricordare che durante la presenza dell’arcivescovo di Milano Arnolfo III (che proprio qui a San Pietro morì nel 1097 e fu sepolto), avvennero i mutamenti nelle strutture dell’edificio: venne costruita  l’abside a oriente, venne sistemata quella a occidente e venne realizzato appunto l’ambulacro esterno. La navata è unica e sotto di essa c’è la cripta, cui si accede tramite una scala sul lato destro per chi entra, circa a metà dell’edificio.

Grazie ad uno studio del prof. Adriano Gaspani[1] apprendiamo che dal punto di vista archeoastronomico la chiesa di San Pietro rispetta le norme in vigore durante l’ XI secolo d.C.  L’asse dell’edificio risulta chiaramente equinoziale, cioè diretto con molta precisione verso il punto di levata del Sole all’orizzonte naturale locale rappresentato dal profilo dei monti nella direzione Est astronomica. Il Sole era quindi visto sorgere lungo l’asse della chiesa nei giorni 17 marzo (equinozio di primavera) e 20 settembre (equinozio d’autunno) del calendario giuliano. Tali date erano esatte all’epoca dell’edificazione ma poiché lo spostamento del punto di levata del sole nei secoli è lento, la levata del sole equinoziale è osservabile ancora oggi lungo l’asse della chiesa.

 

        

        

 

        

L’Oratorio di San Benedetto è un edificio dalla forma cruciforme smussata composto da tre absidi semicircolari[2] e un vano rettangolare posto a occidente nel quale si apre una delle due porte d’ingresso, quella principale; l’altra entrata è posta sul lato meridionale. L’asse dell’edificio è molto ben orientato verso il punto delle levata solare equinoziale all’orizzonte naturale locale rappresentato dal profilo delle montagne poste sullo sfondo.

Notiamo che sui frontespizio delle pareti est ed ovest si trovano due finestrelle in forma di croce; qual’era la loro funzione? Secondo A. Gaspani (op. cit.) era eliotropa, ossia quella di catturare i raggi solari all’alba e al tramonto agli Equinozi.

Vediamo la disposizione delle aperture nell’edificio: sul lato Nord vi è una monofora, sul lato sud due monofore e sul lato est (abside principale) tre monofore. Queste collocazioni non furono operate certo a caso dal costruttore ma con l’intenzione di catturare la maggior quantità di luce possibile, in base all’apparente cammino del Sole durante il giorno, che disegna un semiarco diurno. Il prof. Gaspani, che condusse l’indagine sugli orientamenti, ha stabilito che nell’Oratorio sono codificate numerose direzioni astronomicamente significative.

 

           L'abside orientale, esternamente                         Le tre monofore viste dall'interno

 

La monofora centrale presente sull’abside centrale faceva entrare il raggio del sole nascente il giorno dell’Equinozio (14 marzo – 17 settembre) ma attraverso la monofora sinistra (diretta a N-E), entravano i raggi del sole che sorgeva all’alba del giorno del Solstizio estivo che, durante l’ XI secolo, cadeva il 16 giugno. Studi ottocenteschi (Barelli) hanno appurato che la monofora centrale era stata chiusa per far probabilmente posto ad un affresco rappresentante la crocifissione, realizzato fra la fine del '500 e l'inizio del '600 su indicazione prima di Carlo Borromeo e quindi del cugino Federico Borromeo, arcivescovi di Milano. Barelli volle riaprire la monofora ma così facendo distrusse quasi per intero l’affresco.

L’abside di meridione presenta due monofore; da quella che guarda a S-O entravano i raggi solari al tramonto del Solstizio d’inverno (15 dicembre).

E la monofora destra dell’abside centrale e quella sinistra dell’abside meridionale?

Il Prof. Gaspani  ha rilevato che entrambe sono caratterizzate da un asse praticamente parallelo che concorda molto bene con il sorgere della Luna al lunistizio intermedio inferiore, quando la sua declinazione assume valori pari  a –e+i (ponendo e= angolo di obliquità dell’eclittica ed i= inclinazione dell’orbita lunare rispetto a quella terrestre). Gli allineamenti lunari sono rari in una chiesa cristiana.

A occidente, il portale permetteva l’ingresso dei raggi solari al tramonto del giorno dell’Equinozio.

Risulta con una certa chiarezza quanta cura ebbero i costruttori di assicurare a questo piccolo edificio la maggiore insolazione possibile.

 

                 

 

Ma perché? Qual’era la funzione di quello che è definito Oratorio Benedettino?

E’ una domanda interessante, tenendo conto che la sua pianta è, quanto meno, assai insolita. Gli studiosi ritengono che qui i monaci venissero a meditare, forse a studiare o praticare lavori di qualche tipo (essendo riscaldato dalla luce naturale del sole) oppure che venisse usato come “cappella hiemalis” (invernale), in sostituzione alla cripta sotto San Pietro, sicuramente più fredda. Ma il ritrovamento di sepolture attorno all’oratorio stesso ha fatto supporre che vi fosse il cimitero dei monaci: in tal senso l’edificio avrebbe svolto la funzione (anche) di cappella funeraria. 

 

             

                        Le due finestrelle a forma di croce del lato ovest (viste dall'interno)

 

 

Crediamo che chi commissionò gli affreschi e le sculture originali del complesso di San Pietro abbia voluto inserire qualcosa di più nel codice astronomico, o unitamente a quello. La lettura delle iconografie che ancora oggi si possono ammirare va, secondo noi, condotta non al mero livello didascalico o liturgico, ma esoterico, ovvero nascosto dietro la parabola, l’allegoria, la metafora, il racconto biblico ed evangelico[3]. Cercheremo quindi di considerarli con “altri occhi” seppure la loro adeguata interpretazione ermetica esuli da questo semplice lavoro, e la complessità di tale operazione esigerebbe una trattazione approfondita.

 

  • Simbolismi nell’Oratorio di San Benedetto

 

Nell’Oratorio di San Benedetto non è rimasto praticamente nulla né come opere scultoree né pittoriche, eccetto qualche residuo. Esternamente lo stile ci pare di poter dire che è quello dei Maestri Comacini, e va sottolineata la singolarità della pianta, non unica ma rara. Sopra gli archetti sottogronda, nelle absidi (a nord, est e ovest, ma non a sud) si notano degli elementi disposti “a dente di drago”. Come abbiamo già detto sopra, inoltre, i costruttori inserirono un codice luminoso preciso, collocando le monofore con sapiente abilità.

Non sappiamo se un tempo, internamente, l’edificio fosse arredato; abbiamo notato una piccola acquasantiera che presenta, sul fondo del bacile, una bellissima croce “patente”:

 

                        

 

I ricercatori non hanno trovato tracce di decorazione pittorica sulle pareti, che risultavano intonacate; nell’abside est si vede ancora l’affresco –mutilo- della Crocifissione, che venne eseguito nel XVI secolo dopo che era stata ordinata la chiusura della monofora centrale (poi riaperta a fine XIX secolo) da parte del Borromeo.

Un elemento importante ci è pervenuto, però: il piccolo altare quadrato (che ci ha ricordato quelli di matrice bizantina) che presenta, su tre lati del piedistallo, tre opere ad affresco, risalenti verosimilmente sempre all’ XI secolo, sotto la gestione dell’arcivescovo milanese Arnolfo III. Ad una matrice orientale/bizantina sembra risalire anche la scena della faccia centrale dell’altare: una deesis, cioè la rappresentazione di un Cristo risorto, che con la mano sinistra regge il Libro della Parola (aperto).

 

                    

 

Il suo volto è mancante: al suo posto c’è una chiazza chiara e la tradizione vuole che i colori siano scomparsi a causa dei continui “sfregamenti” delle mani dei fedeli su quel sacro volto. Anche gli occhi dei due illustrissimi personaggi dipinti accanto a Gesù (Sua Madre Maria e San Giovanni Battista, riconoscibile dalla barba, in quanto l’Evangelista è raffigurato sempre imberbe) sono compromessi. Ricorderemo la leggenda della fondazione di questo complesso, ed è probabile che qui arrivassero pellegrini e devoti che cercavano protezione o guarigione a problemi oculari. Ma a livello simbolico “riacquistare la vista” (come nella tradizione accadde al figlio del re Desiderio) significa “iniziarsi” ai misteri divini, prendere consapevolezza, discernere, illuminarsi. E’ il primo passo verso l’Adeptato.

Sul lato destro fu dipinto un monaco dalla caratteristica “tonsura” ( capelli rasati circolarmente al centro), e infatti questa figura è identificata come San Benedetto, cui l’Oratorio è intitolato (prima che a lui, pare che l’edificio fosse dedicato a San Giovanni Battista).

A sinistra troviamo Sant’Andrea: perché, tra tanti santi, troviamo proprio lui? Un’interpretazione è che egli è il terzo santo delle litanie funebri (dopo San Pietro e San Paolo), e potrebbe ricollegarsi all’uso dell’oratorio come Cappella funeraria. Ma il santo qui effigiato regge un cartiglio in cui è ben visibile la X, che notoriamente è il simbolo del suo martirio (sarebbe stato crocifisso su due pali incrociati, appunto formanti una X). Tuttavia nella Scienza Ermetica, che fa largo impiego di un linguaggio sotteso (“la lingua degli uccelli”), la X è il geroglifico della luce manifestata, indicata dalla lettera greca X=khi, iniziale – scrive Fulcanelli – delle parole χωνευτήριο, χρυσόςχρόνος cioè crogiolo, oro e tempo, triplice incognita della Grande Opera. Fulcanelli suggerisce una fine associazione con la vista umana, che ci sembra pertinente citare: “Il simbolo della luce si ritrova nell’organo visivo dell’uomo, finestra dell’anima, aperta sulla natura. Sta all’incrocio ad X delle benderelle ottiche e dei nervi ottici, che gli anatomisti chiamano chiasma (dal greco χίασμα)[…]”. La X è, nell’Arte Ermetica, la scintilla, il segno dell’illuminazione della Rivelazione Spirituale; è il sale ammoniaco dei saggi perché realizza l’armonia, l’accordo tra l’acqua e il fuoco, è il mediatore per eccellenza tra il cielo e la terra, lo spirito e il corpo, il volatile e il fisso. E’ il sigillo o segno che rivela l’uomo le virtù intrinseche della prima sostanza filosofale, è paragonabile alla chiave di San Pietro… Rimandiamo il lettore interessato all’ampia trattazione che Fulcanelli dedica al simbolo della X in alchimia[4] (per quanti non lo conoscono, susciterà certamente stupore e meraviglia, se si cercherà di penetrarne il senso appropriato che egli ha cercato di rivelare, pur mantenendo il necessario mistero).

      S. Andrea, sul lato sinistro dell'altare e il dettaglio del cartiglio che regge, con la X

Notiamo, inoltre, che il santo è rivestito di rosso e tiene con la mano destra una lunga croce.

 

  • Simboli a carattere ermetico nella basilica di San Pietro

 

Abbiamo già avuto modo di accennare al fatto che appena approdati sul pianoro in cui sorge il complesso cultuale, sparisce ogni fatica dovuta alla fatica  della salita (definita “prostrante” in alcuni testi). Miracoli del luogo!? Il primo a vedersi è l’incantevole sagoma dell’oratorio benedettino che già rapisce i sensi  ma girando lo sguardo a sinistra si ammutolisce completamente perché è impossibile non restare a bocca aperta scorgendo l’imponente, originale e armoniosa mole del San Pietro. L’attuale scalone fu realizzato nel 1500 e si integra comunque bene nell’architettura. Una colonna di pietra su cui è stata issata una croce di ferro è situata tra i due templi.

Intorno è una sinfonia di colori che la natura prodiga ai visitatori; basterà predisporre l’animo per far sì che ciascuno si percepisca poi in un’unica Luce che si concentra tutta nell’edificio, dove gli Elementi paiono fondersi e trasmutarsi in un inno al divino.

 

                            La basilica di San Pietro e l'Oratorio Benedettino visti da sud

 

Approfittando dell’orario di sosta (tra le 12.30 e le 13.30), in cui non c’è anima viva, abbiamo aggirato la chiesa: sul lato sud troviamo tracce di muri perimetrali, che poi verremo a sapere essere appartenuti a delle stalle o magazzini. Gli edifici del monastero dovevano essere infatti sul lato opposto, a settentrione, dove tutt’ora esiste un’ala abitativa: la parte superiore fu però realizzata a metà del secolo scorso mentre quella inferiore potrebbe risalire- in alcune parti- al periodo medievale. Portandosi ad occidente, si osserverà bene l’abside, che non presenta aperture. Il lato nord è poco indagabile a causa della scarpata.

 

              

                                 L'abside della basilica situata a occidente

 

Il grande ambulatorio finestrato che caratterizza l’edificio permette, al piano inferiore, di vedere che è stato impiegato come deposito di attrezzi. Forse qui esisteva un ingresso per la cripta, in antico. Salendo lo scalone si arriva invece al piano superiore, a livello della chiesa.

 

        Resti murari sul lato sud dell'edificio                             Deposito di attrezzi

 

E’ bellissimo soffermarsi a godere il panorama sul pittoresco lago di Annone, offerto dalle bifore, che hanno una caratteristica colonnina centrale: si mira e rimira senza desiderio di muoversi, come estasiati. E’ bene comunque fare caso a tutti i dettagli che la muratura dell’edificio può ancora offrire; tracce di affreschi sono ancora visibili sugli archi. Sulla destra si apre un cancelletto che introduce nei locali del vecchio monastero, che sarà possibile vedere durante la visita. In questo atrio è affissa al muro la lapide che attesta che Paolo Diacono soggiornò qui.

Il portale d’ingresso si trova tre gradini sopra il piano di calpestio dell'ambulacro; nella lunetta sovrastante è dipinta la Traditio legis et clavis, figurazione pittorica della dedicatio  della basilica: San Pietro e San Paolo ricevono da Cristo rispettivamente le chiavi, simbolo del potere della Chiesa, ed il libro della parola di verità, il Vangelo. I due apostoli non hanno le mani nude ma velate da dei drappi. Un particolare interessante: le figurazioni dei santi e di parte del Cristo sono in affresco; ma un tempo la testa del Cristo era in stucco, materiale che è poi caduto nel corso del tempo probabilmente per l'umidità e rifatto, male, in affresco; Cristo non è raffigurato per intero ma la parte inferiore del suo corpo continua nella porta  stessa:  il pellegrino che varca questa porta entra a far parte del corpo di Cristo, che è la Chiesa. A noi questa raffigurazione fa riandare il pensiero ad un significato sotteso, ermetico, non espresso letteralmente: Cristo (lapis, la Pietra dei Filosofi, l’Oro alchemico) è in questo tempio, che è alchimia pura. All’interno, gli affreschi raccontano – in un  linguaggio dottrinale e didascalico –i passaggi per la realizzazione del’immortalità dell’Anima, della trasmutazione della materia grezza in spirito divino.

Appena il portone si apre, la percezione sensoriale subisce un lieve sussulto: è come se si cominciasse a vibrare in una dimensione ovattata, indescrivibile. C’è l’alto ciborio, sullo sfondo disegnato dall’abside occidentale, che ricorda molto quello presente nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano (anche se là vi è più ricchezza nei materiali impiegati). Ma è doveroso “iniziarci” alle lettura di quanto sculture e affreschi del corridoio d’ingresso e delle cappelline laterali presentano.

 

          

 

Va ricordato che in origine non si entrava da qui e quelle che noi andremo a visitare e chiamiamo “cappelle” appartenevano ad un luogo privilegiato riservati ai nobili, per questo era chiamata Cappella Regale Da essa i membri della famiglia imperiali, i messi ed i funzionari dell'imperatore assistevano alle cerimonie liturgiche della basilica. Da essa pure, questi personaggi potevano ammirare l'interno di tutta la basilica.

 

Interessante raffigurazione la notiamo girandoci verso la lunetta che sovrasta il portale d’ingresso dall’interno: Abramo, inteso come Padre dell’umanità, ha tra le braccia tre piccoli personaggi che simboleggerebbero il suo popolo nella fede; questa scena aveva valore dottrinale-teologico inteso a rassicurare i pellegrini che uscivano dal tempio, che si potevano riconoscere stretti nell'abbraccio del Patriarca biblico. In realtà potrebbe avere un significato meno scontato. La parola latina Abraham ha una forte attinenza con Brahma della Trimurti induista (il Creatore), ed è assmilabile all'inconoscibile essenza delle Cose, spirito corporificato in esse, esercitante la sua efficacia sia presso gli animali sia presso i vegetali e all’interno dei corpi minerali metallici (E. Danese "La Vita, la Grande Opera", p. 84, Italia Editrice).

 

Quattro eleganti colonne tortili delimitano lo spazio: tre hanno la decorazione ad andamento destrorso e una sinistrorso. Sicuramente avrà un senso anche questo. Raccordano le colonne degli splendidi plutei simbolici: a destra è raffigurato un grifone e a sinistra una chimera.

 

           

            La Chimera scolpita nel pluteo tra le colonne d'ingresso, a sinistra entrando

 

Il grifone è un mostro mitologico dalla testa e petto d’ aquila (forza dell’aria e volatile) e il resto del corpo di leone (forza terrestre e fissa): è il simbolo ermetico delle qualità contrarie che devono indispensabilmente congiungersi nella materia filosofale. E’ la prima congiunzione che avviene poco per volta mano a mano si procede sulla strada faticosa della Grande Opera, questa fase viene chiamata aquile. Abbiamo già spiegato questi concetti nella sezione il Linguaggio dell’Alchimia. Nell’espressione alchemica “far volare l’aquila” si rintraccia la capacità acquista di far uscire la luce dalla tomba e portarla in superficie, caratteristica di una vera sublimazione. Questo primo stadio della perfezione, ci informa Fulcanelli, lo può apprendere soltanto chi è dotato di un’intelligenza industriosa e abile e senza un gran lavoro non si avrà vittoria di riuscita. “[…] Per perfezionare la nostra opera c’è bisogno di non meno di sette aquile, e se ne dovrebbero usare almeno nove. Il nostro Mercurio filosofico è l’uccello di Ermes, che viene chiamato anche Oca o Cigno e talvolta anche Fagiano[5].  Occupiamoci ora della chimera: è la mitologia che ci ha tramandato il suo aspetto descrivendola come un animale a tre teste diverse su di un corpo di leone che finiva con una coda di serpente; una testa appartiene al leone, una a quella di una capra e la terza di un drago. Due parti risultano preponderanti, quelle del leone e del drago perché nella composizione portano l’una la testa e il corpo, l’altra la testa e la coda. “Analizzando il simbolo secondo l’ordine delle successive acquisizioni, il primo posto spetta al drago, che si confonde sempre con il serpente […]. “Si tratta della nostra materia iniziale- spiega Fulcanelli - cioè proprio del soggetto dell’arte, considerato nel suo stadio primitivo e nello stadio nel quale ci è fornito dalla natura […]. Dal contatto prolungato zolfo-leone con il sovente-drago nasce un nuovo essere rappresentato simbolicamente dalla capra o, se si preferisce, dalla Chimera stessa. La parola greca Chimera (χίμαιρα) significa anche giovane capra khi-méter, "madre della luce"), che altri non è che il mercurio filosofico, nato dall’alleanza dei principi zolfo e mercurio e che possiede tutte le facoltà richieste per diventare il famoso ariete dal vello d’oro, il nostro Elisir e la nostra pietra”[6]. Chi l’avrebbe mai immaginato, diranno molti lettori, che dietro la Chimera si celasse tutto l’ordinamento del lavoro ermetico e tutta la Filosofia alchemica? Nell’interpretazione classica cristiana il grifone e la chimera simboleggiano il male che fugge dalla chiesa, intesa come bene.

Nell’Arte Ermetica è assai difficile dare un significato a ciascun dettaglio (ci vorrebbe un Maestro per fare questo), tuttavia ci sembra doveroso sforzarci per andare oltre l’interpretazione letterale e portarci nella sfera simbolica che entra nella profondità del “senso” iconografico che ci è stato tramandato.

A destra del piccolo corridoio d’accesso troviamo la figura di San Marcello (papa), che la tradizione medievale ricorda per aver accolto nella Chiesa i fedeli scismatici. A sinistra c’è San Gregorio Magno (papa), frate benedettino prima di salire al soglio pontificio. Entrambi sono raffigurati mentre accolgono i penitenti nell’edificio e, da sottolineare, è la presenza nel registro inferiore di ambedue le scene, di un grosso pesce immerso nell’acqua. Se è vero che fin dalle origini del Cristianesimo il pesce è stato usato per indicare Cristo (dal greco antico ἰχϑύς traslitterato in seguito nel latino ichthýs), ci sembra assai pertinente aggiungere che è proprio questo pesce ermetico il protagonista principale, lo zolfo prezioso, il piccolo Re (delfino o remora). I due santi sormontano un piedistallo che ricorda una pietra cubica. Fulcanelli scrive che San Marcello è l’equivalente, nel simbolismo ermetico, di San Giorgio e di San Michele che trafiggono il drago ermetico, copie cristiane di Perseo che, a cavallo di Pegaso, uccide il mostro che sorveglia Andromeda, o Cadmo che trafigge il serpente contro una quercia, di Apollo che uccide con le sue frecce il serpente Pitone, di Giasone che uccide il drago della Colchide, di Horus che combatte Tifone del mito di Osiride, di Ercole che taglia la testa all’Idra e ancora di Perseo che taglia quella della Gorgone. E’ in questo “mostro” (drago che sia) che si nasconde la luce, l’oro immortale. L’agente segreto  deve saperlo tirare fuori da questa “materia vile, grezza, solfurea” che si cela sotto le sembianze dell’allegoria ermetica, dove si nasconde il combattimento singolare dei corpi chimici la cui combinazione produce il solvente segreto (e il vaso dell’amalgama). San Marcello e San Gregorio non fecero altro, del resto, che continuare l’opera di San Pietro e di San Paolo…

 

I due papi santi che abbiamo unito, idealmente, nella foto (ma si trovano uno a destra e l'altro a sinistra dell'ingresso); nel registro inferiore, il pesce

 

Sulla prima volta a crociera troviamo Cristo al centro di una città ideale: la Gerusalemme Celeste, illustrata secondo la descrizione dell’Apocalisse (21, 9-22,5) rivisitata in epoca medievale: una città quadrata con tre porte su ciascun lato (in totale 12 porte dalle quali emergono altrettanti volti), e fondata sulle pietre preziose di cui si leggono le iniziali. Cristo, al centro, è accompagnato dall’agnello ai suoi piedi, mentre lateralmente vi sono gli alberi della Vita. Dai piedi di Gesù sgorga un rigagnolo di acqua che si divide poi in quattro ruscelli che scorrono verso l’interno della basilica. Gesù è in posizione seduta (su un supporto sferico, allusione al mondo), la posa ieratica, con il nimbo intorno al capo (decorato con losanghe contornate da quattro piccoli cerchi); è un uomo barbuto, vestito di rosso; con la mano sinistra regge un libro aperto mentre la destra stringe una lunga asta per la misura della Città Celeste. Ai quattro angoli stanno i nomi delle Quattro Virtù Cardinali: Prudenza, Giustizia, Forza, Temperanza (che secondo la dottrina Scolastica del Medioevo si associavano ai Quattro Elementi: Terra/Prudenza; Aria/Giustizia; Fuoco/Forza; Acqua/Temperanza. Per arrivare alla Gerusalemme Celeste, all’esaltazione dello Spirito Universale, l’illustrazione (ricordiamo eseguita nel medioevo dell’XI secolo) suggeriva di seguire una via trascendente.

 

                     

 

Il libro aperto indica la Verità rivelata, essoterica. Ma i Filosofi insegnano che il libro aperto indica la soluzione radicale del corpo metallico che, avendo abbandonato le proprie impurità e ceduto il proprio zolfo, è detto aperto. Fulcanelli si spinge a dire che sotto il nome di liber  e sotto l’immagine del libro è celata la “materia che detiene il solvente”, e i saggi hanno inteso rappresentarla come un libro chiuso o sigillato, simbolo generale di tutti i corpi grezzi, minerali o metalli, così come forniti dalla natura. Sottoposti al lavoro ermetico, modificati con l’applicazione dei procedimenti occulti, questi “corpi grezzi o libri chiusi” si esprimono iconograficamente con un libro aperto. Nella pratica è pertanto necessario estrarre il mercurio dal libro chiuso (soggetto primitivo) per averlo vivente e aperto se vogliamo che, a sua volta, sia in grado di aprire il metallo e rendere vivo lo zolfo inerte in esso racchiuso. L’apertura del primo libro prepara quella del secondo; perché nascosti sotto lo stesso emblema ci sono due libri chiusi (il soggetto grezzo e il metallo) e due libri aperti (lo zolfo e il mercurio), benché questi libri geroglifici ne formino in realtà uno soltanto perché il metallo proviene dalla materia iniziale e lo zolfo trae origine dal mercurio[7].

 

                 

            Qui sitit veniat (Chi ha sete venga), dall'Apocalisse (22,6-20)

 

La rappresentazione della volta seguente mostra quattro personaggi che stanno rovesciando dell’acqua da quattro grandi otri; quest’acqua origina i quattro fiumi del Paradiso Terrestre (Geon, Pison, Tigri, Eufrate), simboleggiando l’unione del Cielo con la Terra. Centralmente spicca il cerchio che racchiude il Chrismon, o Chi-Rho (XP), dalle prime due lettere del nome greco di Cristo (ΧΡΙΣΤΟΣ), che qui risultano affiancate dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto greco, alfa (άλφα) e omega (ωμέγα), l’inizio e la fine dei Tempi. In realtà questa scena è molto bella e sarebbe degna di essere approfondita; gli otri somigliano a dei matracci alchemici, vasi ermetici dispensatori di segrete virtù.

 

 

Dirigendosi subito a destra dell’ingresso (a sinistra se si sta uscendo), superate le colonne tortili, si accede alla Cappella dei Santi, così definita perché sono state dipinte trilogie di santi nell’absidiola. Trilogie perché, curiosamente, i personaggi sono stati raffigurati tre a tre e risultano ripartiti in sette categorie: quelle dei patriarchi, dei profeti, degli apostoli e quelle degli evangelisti, dei martiri, dei pontefici e degli anacoreti. Il loro studio richiederebbe di soffermarsi in loco un tempo sufficientemente lungo. Cristo all’interno della Mandorla mistica dipinta con quattro colori (tradizionalmente associati alle fasi dell’Opera); è raffigurato come un Uomo barbuto, con il nimbo (decorato similmente al Cristo al centro della Gerusalemme Celeste vista poc’anzi). La mano sinistra regge qui un Libro chiuso. La mano destra è in atto benedicente (con medio e mignolo che toccano il pollice, alla “bizantina”). Due figure, ufficialmente classificate come angeli, stanno ai lati della mandorla mistica, che poi ha più una forma a corone concentriche che a vescica di pesce. Alla luce di questa considerazione, I due personaggi ai lati non sembrano limitarsi a sostenere i dischi circolari entro cui c’è Cristo assiso ma paiono imprimere un movimento alla “ruota solare” (così potrebbe essere inquadrata), di cui Cristo stesso è centro e perno.

 

          

                                 Absidiola/Cappella dei Santi

 

Dettaglio di uno degli angeli

 

A sinistra dell’ingresso si trova invece la Cappella degli Angeli, cosiddetta perché presenta raffigurazioni di angeli tre a tre e ripartiti in sette schiere o categorie angeliche: angeli, arcangeli, principati, potestà, virtù, dominazioni, troni. L’insieme presenta una straordinaria e singolare composizione pittorica parietale (purtroppo attualmente inaccessibile per lavori ma gli affreschi si possono comunque vedere abbastanza bene). Si svolge un tema relativo all’Apocalisse: sulla parete e nelle vele triangolari i sette angeli dell'Apocalisse, con trombe d'argento, chiamano i vivi ed i morti al Giudizio Universale. Nel catino absidale c’è Cristo similmente ritratto come nella Cappella dei Santi, all’interno della Mandorla mistica dipinta con quattro colori (anche in questo caso, la forma di vescica piscis non è apparezzabile, mentre si è più propensi a considerare la circolarità dei quattro elementi, con il fuoco solare centrale, o quintessenza). Cristo è raffigurato come un Uomo barbuto, con il nimbo, lavorato in modo identico a quello della Cappella dei Santi. La mano sinistra regge un Libro chiuso e la destra è in atto benedicente (con medio e mignolo che toccano il pollice). Si nota un capo d’abbigliamento alquanto anomalo, sotto il manto (quest’ultimo portato da un lato fino all’addome e dall’altro lato appena sopra la spalla): infatti il collo ne viene fasciato. Molto interessanti altre due categorie angeliche (cherubini e serafini con sei ali) che reggono la Mandorla mistica (o la ruota solare?). Hanno il corpo ricoperto di piume e vi sono delle ruote di fuoco ai loro piedi. Questi angeli, tra stelle, hanno un occhio aperto nella mano e altri occhi sono sparsi sulle loro piume, sia sul corpo che sulle ali. Questo trae ispirazione dalla visione profetica di Giovanni nel Libro della Rivelazione o Apocalisse, dove questi esseri sono chiamati "viventi" e assumono caratteristiche del tetramorfo (solo in seguito associato ai quattro evangelisti): "I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere [...]" (Ap. 2,7).

In totale si contano nove schiere angeliche[8]. La raffigurazione, in parallelo, indica al Filosofo che la sua materia, raffinata sette volte (calcinata) ha raggiunto uno stato di purezza pressochè totale, una brillantezza degna dell’Elisir bianco, della rigenerazione (il nostro Re morto è resuscitato). Fulcanelli insegna che “tutti i nostri lavaggi sono ignei, tutte le nostre purificazioni sono fatte nel fuoco, dal fuoco e con il fuoco”.

 

 

L’affresco più scenografico è quello situato sopra il timpano che chiude l’ingresso e le cappelle, ed è ben visibile al fedele che si appresta ad uscire dalla basilica; probabilmente va letto unitamente alla cornice in stucco, nel centro della quale c’è l’agnello di Dio, e forse anche con la presenza dei due oculi circolari laterali, mentre superiormente una finestrella in forma di croce sintetizza e riconduce la nostra Opera nel suo “contenitore originario”, il crogiolo. Nulla può accadere se non c’è il “donum dei”, il Dono di Dio e l’Alchimista lo sa bene. Il tema dell’affresco è il versetto XII del Libro dell’Apocalisse (Visione della donna e del drago): [1]Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. [2]Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. [3]Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; [4]la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. [5]Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. [6]La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. [7]Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, [8]ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. [9]Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. [10]Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:

"Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
poiché è stato precipitato
l'accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio
giorno e notte.
[11]Ma essi lo hanno vinto
per mezzo del sangue dell'Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio;
poiché hanno disprezzato la vita
fino a morire.
[12]Esultate, dunque, o cieli,
e voi che abitate in essi.
Ma guai a voi, terra e mare,
perché il diavolo è precipitato sopra di voi
pieno di grande furore,
sapendo che gli resta poco tempo".

[13]Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. [14]Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente. [15]Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d'acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. [16]Ma la terra venne in soccorso alla donna, aprendo una voragine e inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca.

[17]Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.

[18]E si fermò sulla spiaggia del mare.

 

 

 

 

Sotto le spoglie del drago si nasconde, nel linguaggio degli Alchimisti, la materia minerale grezza, e la sua importanza è cruciale, così come è importante osservarne con cura i segni esteriori e le qualità capaci di permetterne l’identificazione, facendo riconoscere e distinguere il soggetto ermetico tra i tanti minerali che la natura mette a disposizione. Questo soggetto ermetico è volatile, cosa che è tradotta dalle ali membranose che equipaggiano il drago: egli infatti è l’unico dispensatore dei frutti ermetici, né è il depositario, il vigilante conservatore. E’ lui che nasconde e imprigiona l’aurifico mercurio che, sciolto in sale e zolfo, diventa l’umido radicale dei metalli ed il loro sperma animato. Questa prigione è tanto robusta che la natura stessa non riuscirebbe a farlo uscire, se l’arte industriosa non ne facilitasse i modi, constata Fulcanelli. Ovvero solo gli Adepti conoscono il procedimento per farlo. All’interno del mostro, che racchiude i due principi della Filosofia (l’elemento fisso maschile, solfureo e quello volatile, femminile, mercuriale) è nascosta la bianca principessa, simboleggiata dalla Vergine Maria nel cristianesimo. Questa pietra bianca e lucente dovrà essere estratta o liberata dal drago solfureo mediante l’azione dello zolfo, simboleggiato dal cavaliere armato di lancia, di volta in volta Longino, Cadmo, San Marcello, San Giorgio o San Michele che, trafiggendo il mostro, consentirà allo spirito di salire in superficie. La presenza nella scena del Sole e della Luna sono i geroglifici dei due principi d’origine mercuriale e solfurea che, tramite il fuoco continuo, sono destinati a diventare quintessenza. L’unione delle due opposte nature verrà benedetta dalla nascita di un figlio, una creatura divina che l’allegoria alchemica ha collegato al Bambino divino cristiano: Gesù, che nasce ad opera dello Spirito Santo, fecondatore celeste rappresentato generalmente da una colomba bianca dalle ali aperte (croce=crogiolo). Ecco dunque a sinistra la Vergine (mercuriale) che diventa virgo paritura senza perdere la sua purezza, partorisce il bambino divino o rebis, sostanza spirituale e materiale, minuscolo ma potentissimo, incorporato nel sale o vetriolo o smeraldo dei saggi. Si noti che nella scena il "Bambino" ha una mucolatura da adulto, porta già i  capelli folti e dagli occhi sembra fuoriuscire un fluido spirituale diretto al drago. E' piccolo ma ha in sè, insomma, tutta la sua potenza.

 

 

Nella scena superiore il "piccolo bambino" viene introdotto nella Mandorla mistica e si rivela Cristo Vincitore (la Pietra Filosofale), seduto in maestà sul trono; nella mano sinistra tiene stretta una pergamena su cui è visibile una legatura a X; la destra è alzata e aperta. Attualmente il volto di Cristo è mancante e i restauri hanno sbiancato quello che un tempo, da immagini trovate su testi d’arte, era nero: giudicate voi cosa si vedeva (a noi sembra che sotto lo strato nero si intravveda un teschio. C’era forse sotto un precedente affresco?). Non si capisce come mai –tra tutte le figure- proprio quella del Cristo manchi; ricorderemo come anche sull’altare nell’Oratorio benedettino il volto del Cristo sia scomparso. In quel caso, lo ricordiamo, la cosa è spiegata, ma nell’affresco che abbiamo appena analizzato è difficile imputare la mancanza del volto del Cristo allo sfregamento delle mani dei pellegrini (troppo in alto).

 

Dettaglio del volto dell'Uomo assiso in trono: prima del restauro (a sinistra) e dopo (a destra)

 

Dopo questa lunga sosta ad osservare i simbolici affreschi della prima parte della basilica, notiamo un bel dipinto sulla parete destra: raffigura San Pietro, con la tiara papale, che tiene una grande chiave doppia, che -riunita- sembr auna sola (una è color oro e l'altra argento, ne parleremo più avanti).

                       

 

La navata della basilica è una sola, è un’aula di tipo romano con copertura a capriate lignee; poco o nulla resta sulla parete Sud, in materia di affreschi, poiché tra il XVI e il XVII secolo venne distrutta l’originaria decorazione. Sull’arco dell’ultima finestra (quella più prossima all’abside ovest) di questa parete meridionale abbiamo notato una croce dai bracci ricurvi.

 

Alla base del leggìo, a destra del ciborio (per chi guarda l'altare), è scolpita una croce sulla pietra, che è sicuramente uno dei pochi residui della chiesa originaria.

 

Diversi rimaneggiamenti hanno interessato la navata, che ne hanno compromesso l’integrità primitiva. Sull’abside centrale non si ritrova alcuna traccia di dipinti o decorazioni plastiche. Sopra la porticina settentrionale spicca un agnello e la parete Nord presenta alcuni grandi dipinti a soggetto votivo, eseguiti tra il XV e il XVIII secolo, sui quali non possiamo soffermarci. Mentre vale la pena di dare uno sguardo accurato ai tre plutei simbolici che fungono da parapetto della scala che conduce alla cripta, sia all’interno che esternamente al parapetto stesso. La decorazione della parte interna della scala è quasi del tutto scomparsa e risulta illeggibile, mentre ottimamente integri risultano i plutei che sono rivolti verso la navata.

La loro datazione è forse antecedente all’XI secolo, probabilmente sono di matrice longobarda e la lettura che se ne può fare è indubbiamente ermetica, complessa, perché non si tratta di una semplice decorazione ma di una sequenza iconografica dal significato filosofico che riporta allo spessore intellettuale dei monaci che risiedevano nel monastero in quel periodo. Monaci che sicuramente erano stati influenzati dall’arte del monachesimo irlandese itinerante o dai testi che gli amanuensi copiavano e traducevano pazientemente. L’uso dell’intreccio, caro ai longobardi, è ampiamente attestato su questi eloquenti capolavori plastici.

Nel primo troviamo una cornice di viticci e all’interno, nella parte inferiore e centralmente, c’è un calice rituale da cui emergono elementi vegetali, destinati a nutrire due animali ermetici: il grifone e il leone. Abbiamo già discusso precedentemente del significato assunto in alchimia dal grifone; il leone è qui raffigurato senza darci la possibilità di conoscere il suo colore. Generalmente il leone riveste il ruolo di elemento fisso, è il segno dell’oro, segno sia alchemico che naturale. Il calice allude al “calderone” o crogiolo della trasformazione spirituale, dove le due opposte nature devono ingaggiare il combattimento affinchè possa liberarsi lo spirito immortale, simboleggiato dalle foglie di vite (uno  dei simboli di Cristo).  Ci sembra che questo pluteo condensi la prima fase dell’Opera Alchemica.

Da questo combattimento, una testa deve cadere (metaforicamente è il fuoco o  principio solfureo che si è installato nella terra) e nel pluteo seguente vediamo  due giovani leoni che si cibano da questo “caput”: lo scopo della seconda fase dell’Opera è proprio quello di estrarre dalla terra rossa (derivata dal caput delle prima Opera), lo zolfo filosofico che costituiva infatti la virtù ignea del leone. Questo oro metallico (zolfo filosofico) deve salire in alto, verso la superficie (attraverso il bagno mercuriale), fondendosi così in un’unica sostanza, nobile e dalla doppia natura.

           Il secondo, splendido motivo del parapetto della scala che conduce alla cripta

 

Il terzo pluteo mostra, quasi confuso nel “caos” vegetale, un serpente o drago che tiene nelle fauci una mela. E’ il pomo delle Esperidi, la mela d’oro custodita dal drago del Giardino Ermetico, il premio per chi ha proceduto rettamente, l’immortalità dell’Anima. Due draghetti alati e messi di profilo tengono nelle fauci un pesce ciascuno. L’intima unione delle due opposte nature, dopo una lunga ripetizione della stessa operazione, fa sì che il metallo morto resusciti e il piccolo pesce nasca, esso è anche la remora[9] degli alchimisti e molto realmente il Figlio dell’Uomo (Cristo era simboleggiato con un pesce nel cristianesimo primitivo, come abbiamo già discusso).

Scendendo nella cripta ci si addentrerà ulteriormente in un mondo in cui le percezioni sensoriali avranno il sopravvento, così deve essere: mettersi in comunicazione e in comunione con il sacro, siamo qui per questo. L’analisi delle sculture in stucco non rientra in questo lavoro, che diventerebbe eccessivamente lungo. Pochi lacerti di affreschi rimangono sulle pareti; l’ambiente è comunque meritevole di una visita accurata, anche perché a rigor di logica andrebbe iniziato proprio da qui un percorso coerente, dato che è il primitivo nucleo dell’edificio chiesastico e conserva la sapiente abilità di maestranze carolingio—ottoniane. Segnaliamo una Dormitio Virginis (abbastanza rara e non descritta nei Vangeli canonici), con l’Assunzione in Cielo della Vergine, e una crocifissione (al di sotto), particolare: si abbia cura di osservare il tronco d’albero usato per crocifiggere Gesù, pronto a ramificare.

 

             

                   Cripta di S. Pietro: veduta dell'absidiola e dell'altare

 

Tornando nella navata è il momento di vedere, con il giusto spirito, l’opera più rilevante della basilica: il ciborio. Rialzato di tre gradini, è un monumento sorretto da quattro colonne lisce (probabilmente di epoca seicentesca); nella parte inferiore è stata collocata (in epoca moderna) un’urna ritrovata in fase di scavo archeologico in un’altra zona del complesso e posta qui senza apparente intento specifico. Essa infatti non conterrebbe reliquie.

                               

 

Il ciborio, superiormente, presenta quattro facce per ciascun punto cardinale e le iconografie vanno lette in senso antiorario; alcune parti sono in stucco altre sono dipinte. Il frontone (rivolto a est cioè alla navata) mostra il bassorilievo della Crocifissione di Gesù Cristo, con ai lati la Madonna e San Giovanni Evangelista. Ai lati della testa del Salvatore ci sono il Sole e la Luna. A livello ermetico già abbiamo parlato di questi due astri. Sulla croce, geroglifico del crogiolo alchemico, la materia si mortifica e spiritualizza. Sulla sommità del timpano si trova un volatile (alcuni studiosi la ritengono un’aquila, altri una colomba, cosa più probabile). Sul lato nord è rappresentata la Resurrezione o meglio, il sepolcro vuoto, custodito da due soldati addormentati, mentre l’angelo annuncia alle donne l’accaduto. Nel linguaggio ermetico l’oro filosofico attende di essere esaltato dalle successive operazioni. Nella scena del lato ovest Cristo è seduto in trono, ai suoi lati san Pietro e san Paolo che ricevono da Lui i simboli: Pietro le chiavi e Paolo il Libro chiuso (lo stesso motivo che abbiamo trovato nella lunetta all'esterno, sopra il portale d'ingresso). Fulcanelli sostiene che Pietro detiene le due chiavi incrociate della soluzione e della coagulazione (solve et coagula); è il simbolo della pietra volatile, resa fissa e densa dal fuoco, che la fa precipitare. Non per nulla, fa notare l’Adepto, San Pietro fu crocifisso a testa in giù…[10].

Sul lato sud Cristo-Pietra, agghindato regalmente, è nella Mandorla mistica sostenuta da due angeli; sotto i piedi sembra avere un grosso libro chiuso, un lembo della veste ricade sulla mano sinistra, che tiene un libro chiuso verticalmente, e la destra è in atteggiamento benedicente ma non è classicamente alzata bensì tenuta in laterale (questi particolari sono poco apprezzabili vista la posizione della raffigurazione, piuttosto elevata). I quattro simboli del Tetramorfo (dal greco τετράμορϕος "che ha quattro forme", da τετρα- tetra- e μορφη,μορϕος -morfo cioè forma) concludono la parte superiore esterna del manufatto. Tale raffigurazione è di matrice orientale (bizantina) ed è associata ai Quattro animali dell'Apocalisse (leone, bue o toro, uomo alato, e aquila) cui i Padri delle Chiesa hanno correlato i quattro evangelisti: Marco/Leone; Luca/Toro; Matteo/uomo alato; Giovanni/aquila. Il tetramorfo, secondo San Gerolamo, sintetizza la totalità del mistero cristiano: l’uomo alato= Incarnazione; il bue= Passione; leone= Resurrezione; aquila = Ascensione.

 

 

                   

                                                        Lato sud del Ciborio: Cristo in Gloria

 

Sotto la copertura del ciborio si presenta una scena per l'ennesima volta bellissima ed apocalittica: al centro l’agnello, sovrano, è contornato da diciotto figure di beati (così vengono identificati). Otto vestono di bianco e dieci hanno la veste bianca ma il mantello rosso. All’esterno della cerchia dei beati, corre un’iscrizione; nei quattro angoli si trovano altrettante figure angeliche che reggono con la mano destra il cerchio, mentre dalla sinistra emanano piume foggiate ad ali. E' una visione celestiale, forse legata ancora alla Gerusalemme messianica riprodotta all'ingresso.

 

 

              

Crediamo di poter concludere che questo edificio è veramente una Grande Opera, un'autentica Dimora Filosofale, che ripetutamente ricorda al Fedele il percorso da compiere per ottenere la Salvezza dell'Anima.

 

 


[1] Gaspani, Adriano “Astronomia e geometria nelle antiche chiese alpine”, Priuli & Verlucca Editori, Quaderni di Cultura Alpina, in particolare vedasi le pp.65-66. Si ringrazia lo studioso per aver permesso l'inserimento delle tre immagini "archeoastronomiche".

[2] Le due laterali sono definite attualmente come “due bracci semicircolari di un singolare transetto”, come riportato nella descrizione dell’Associazione Amici di San Pietro voce Oratorio di San Benedetto

[3] Ricorderemo che un frate dell’Ordine Benedettino fu un notissimo alchimista, Basilio Valentino, autore del Trattato Duodecim Claves Philosophiae (Le Dodici Chiavi della Filosofia), Minuit Ed.

[4] “Le Dimore Filosofali e il simbolismo ermetico nei suoi rapporti con l’arte sacra e l’esoterismo della Grande Opera”, III edizione, Edizioni Mediterranee, 2002, pp. 199-206 del I volume

[5] Fulcanelli “Il Mistero delle Cattedrali”, p.94, Edizioni Mediterranee, 2001

[6] Fulcanelli “Le Dimore Filosofali”, op.cit., vol. II, p.134-135

[7] Fulcanelli “Le Dimore Filosofali”, op. cit., vol. II, p.154-155

[8] Secondo la gerarchia degli angeli: https://it.wikipedia.org/wiki/Gerarchia_degli_angeli

[9] La remora era, mitologicamente, un pesce di dimensioni assai ridotte ma dalla forza erculea che, come un’ancora possente, era in grado di fermare anche le navi più grandi. Il prodotto alchemico di questo stadio, vero e proprio embrione della nostra pietra, è detto anche rebis (la cosa duplice), pulcino, pollo, isola di Delo e indicato anche con molti altri nomi fittizi.

[10] Vedasi anche il riferimento al gallo che canta tre volte in Fulcanelli “Il Mistero delle Cattedrali”, op. cit., p. 133

 

 

(Pubblicato nel mese di ottobre 2013 da duepassinelmistero)

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