Chiesa e Alchimia
(Paolo Galiano)
Il Duecento segna la nascita dell’Alchimia europea con una produzione originale di testi alchemici in latino, nei quali si sviluppano le concezioni degli autori greco-bizantini e arabi dei secoli precedenti e s'introducono nuove tecniche di lavorazione alchemica e soprattutto nuove preparazioni, in particolare le acque medicinali (come l’aqua vitae) da cui avranno sviluppo l’elixir e le "medicine" di lunga vita.
Questa nuova "arte" fu dalla sua diffusione in Europa e per molti secoli al centro di un dibattito intellettuale: l’Alchimia costituiva una forma di sapere che non trovava riscontro nelle categorie riconosciute dalle Università e dai dotti dell’epoca, in quanto era un’arte meccanica perché richiedeva manipolazioni manuali e come tale non poteva rientrare nel novero delle arti maggiori (e infatti non fu mai oggetto d'insegnamento universitario), ma al tempo stesso le si riconosceva un rapporto con la magia, di cui costituiva una forma subalterna. In pratica essa costituiva un insieme di conoscenze della natura dei minerali, capacità manuale di lavorare con strumenti meccanici, ma aveva obiettivi di perfezionamento della materia coincidenti anche col perfezionamento interiore dell’operatore, finalità che assumerà nella prima metà del XIV secolo un aspetto dichiaratamente religioso e cristiano con le opere dello pseudo Arnaldo (Tractatus parabolicus), di Pietro Bono (Pretiosa margarita novella) e di John Dastin (Visio), in cui si stabilisce un parallelismo tra i "tormenti" a cui è sottoposta la Materia nell’operazione alchemica e quelli subìti dal Cristo nella Settimana Santa.
Da parte sua, la Chiesa all’inizio non prese in considerazione gli aspetti più prettamente religiosi, ma pose attenzione alle questioni sulla posizione dell’Alchimia nei sistemi dottrinali e sugli aspetti giuridici ed economici derivanti dall'immissione di oro artificiale sul mercato. Era anche vivo l’interesse legato alla ricerca di farmaci di prolongevità, da cui sembra fossero molto attratti i Papi e le alte gerarchie ecclesiastiche come anche i sovrani, a giudicare dal numero di opere su tale argomento a loro dedicate dagli autori di trattati alchemici.
Come scrive la Crisciani, l’attenzione delle gerarchie ecclesiastiche "verteva esclusivamente sull’alchimia metallurgica, sulle sue implicazioni dottrinali e soprattutto sulle conseguenze pratiche e giuridiche, cioè relative alla fabbricazione e messa in circolazione di metalli adulterati … [e] gli uomini di Chiesa appaiono non tanto preoccupati dalle audacie "religiose" quanto molto rigidi nel considerare arte e natura come due àmbiti nettamente distinti e gerarchizzati”.[1]
Le "audacie religiose" cui la Crisciani accenna sono da vedersi nell’accostamento di cui si è accennato tra le operazioni alchemiche e la passione e resurrezione del Cristo identificato con l’Oro alchemico, ma anche negli aspetti profetici e apocalittici presenti in quegli autori i quali si rifacevano più o meno esplicitamente alle opere di Gioacchino da Fiore e dei francescani "spirituali", o quanto meno vicini ad essi come Ruggiero Bacone e Giovanni da Rupescissa.
Ma “non sembra affatto – commenta sempre la Crisciani – che questa dimensione religiosa, quanto meno incontrollata quando non preoccupante, sia stata percepita dagli uomini di Chiesa in atti e documenti ufficiali come un pericolo o una deviazione”[2].
Nell’àmbito della Chiesa furono principalmente i Domenicani, con Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, a cercare di determinare il ruolo e il significato dell’Alchimia.
Per Alberto Magno[3] (1206-1280) l’Alchimia è una scienza che rientra nell’àmbito della philosophia naturalis, ma con il carattere particolare di scienza operativa, di philosophia manualis si potrebbe dire, arte che sulla base di una teoria (anche se non sempre chiara) opera con azioni materiali una trasformazione dei metalli che non solo è possibile ma anche legittima.
Più complessa la posizione del suo discepolo Tommaso d’Aquino (1225-1274): le operazioni alchemiche sono pericolose o addirittura contro natura, in quanto non è possibile mutare le specie dei metalli sulla base dell’affermazione di Avicenna nel De mineralis, sciant artifices species transmutari non possunt, ma questa posizione si attenua notevolmente nella Summa Theologiae (II Quaestio 77): “Se l'oro ottenuto alchemicamente ha le stesse caratteristiche qualitative dell'oro naturale non sarebbe illecito venderlo perché nulla lo proibisce”[4]. La sua posizione nei confronti dell’Alchimia sembra quindi essere non priva di un certo carattere utilitaristico, che sarà ripreso in modo esplicito dal francescano Ruggiero Bacone (1214 circa - 1292), che fa dell’oro alchemico un possibile mezzo per rafforzare la Chiesa contro i suoi nemici.
Solo verso la fine del Duecento si manifestò una decisa condanna nei confronti degli alchimisti ad opera dei Capitoli provinciali e generali degli Ordini mendicanti, a partire dal 1273 con i Domenicani. Nei decreti “si vietava a tutti i frati di studiare, insegnare o praticare l’alchimia in qualsiasi modo e di tenere libri di questa scienza, ma niente di preciso viene detto delle loro pratiche se non che comportavano pericula scandalosa”[5], senza quindi alcun accenno agli aspetti religiosi e metareligiosi di essa.
In seguito però i Capitoli emanarono disposizioni che condannavano i colpevoli all’incarceramento, e i francescani Ruggiero Bacone e Giovanni da Rupescissa furono tra di essi, non solo per questo ma anche per altri motivi, per giungere in seguito a comminare la scomunica con una disposizione del 1313, cioè prima della decretale Spondent pariter quas non exhibent di Giovanni XXII del 1317.
Con questa decretale per altro si colpivano gli pseudo alchimisti falsari e non l’Alchimia in sé, in quanto essa si rifaceva in pratica al citato detto di Avicenna, affermando l’impossibilità della trasmutazione alchemica e quindi la falsità di quanto gli alchimisti (o per lo meno certi alchimisti) promettevano.
La definitiva condanna dell’Alchimia si ebbe nel 1396 con l’inquisitore del regno di Aragona Nicola Eymerich, il quale nel suo Contra alchymistas condanna gli alchimisti non solo perché le loro operazioni sono impossibili, e quindi essi sono tutti falsari, ma anche in quanto cadono nell’eresia stringendo un patto con il demonio per raggiungere i loro fini.
Non ostante tutto ciò proseguì come prima una cospicua produzione di trattati alchemici in cui personaggi che occupavano i vertici della Chiesa, Papi, Cardinali e Vescovi, compaiono come i destinatari di tali opere, come nel caso dei trattati attribuiti ad Arnaldo da Villanova e a Raimondo Lullo, segno dell’interesse di questi religiosi per l’Alchimia sia spagirica che filosofica. In alcuni casi sono anzi essi stessi gli autori di opere alchemiche o per lo meno gli amanuensi li attribuiscono a lro: certamente la mancanza del “diritto d’autore” nel Medioevo non consente di affermare con assoluta certezza che queste opere siano state redatte da questi personaggi, ma in molti casi non vi sono nemmeno ragioni per negarne la paternità, visto che il riscontro di termini o procedimenti alchemici non presenti nel Trecento si può spiegare con la presenza di interpolazioni nelle copie eseguite nei secoli seguenti che potrebbero essere dovute all’amanuense e ai nuovi sviluppi della pratica e del pensiero alchemico[6].
Poiché troppo numerosi sono i religiosi a cui sono attribuiti trattati alchemici o che ne scrivono che qui si dovrebbero ricordare, è possibile solo fare un breve accenno a qualche nome.
Se le opere strettamente alchemiche attribuite ad Alberto Magno e a Tommaso d’Aquino sono da considerare almeno in parte spurie (in particolare il De alchimia e il Semita semitae del primo e l’Aurora consurgens[7] e gli altri scritti sulla Pietra filosofale del secondo), per i Francescani invece l’attribuzione di opere di Alchimia spagirica e farmaceutica è certa per autori quali Bonaventura d’Iseo (Liber Compostille), Ruggiero Bacone (Opus maius) e Giovanni da Rupescissa (De quinta essentia), per cui non è necessario soffermarsi oltre.
Un caso a parte è costituito da due Generali dell’Ordine francescano, Frate Elia e Raimondo Gaufredi, autori di scritti di Alchimia metallurgica che nascondono sotto i simboli metallici un complesso iter di Alchimia sapienziale, ma per questo argomento si rinvia per brevità alle pubblicazioni dei testi di questi due Generali, e particolarmente a Il Vademecum di Frate Elia e Raimondo Gaufredi: il De leone viridi (di prossima pubblicazione).
Si deve aggiungere una nota interessante: il francescano Paolo di Taranto, contemporaneo di Frate Elia e autore di una Theorica et practica che costituisce una descrizione sistematica dei composti minerali e delle operazioni che si possono eseguire su di essi, il quale sarebbe il vero autore della Summa perfectionis dello pseudo Geber sulla base degli studi del Newman, fu “lettore di Alchimia in Assisi”, come si legge in una delle redazioni della sua opera[8]. Il termine lector, come scrive il Du Cange nel Glossarium mediae et infimae latinitatis s. v., ha il significato di praeceptor, quindi Paolo sarebbe stato “insegnante di arte alchemica”, il che farebbe pensare (se la frase non è interpolazione posteriore) che ad Assisi si tenessero corsi specifici per i frati sulla teoria e la pratica alchemica nella seconda metà del ‘200.
Non solo domenicani e francescani ebbero interesse per l’Alchimia ma anche ecclesiastici di elevata posizione, dagli stessi Pontefici a Cardinali, Vescovi e Abati, sono annoverati tra gli autori o gli indirizzatari di trattati alchemici.
Tra i Pontefici il nome di maggior spicco è quello di Papa Bonifacio VIII Caetani (1230 circa - 1303): a lui sono dedicati scritti di Arnaldo da Villanova e di Raimondo Lullo, e gli sono altresì attribuiti diversi trattati quali l’Opus Bonifacii papae cum sequentibus lapidibus albedinis[9], la Practica de aqua corrosiva[10], la Practica papae Bonifacii [11], la Practica roris madii[12]. Quest’ultimo è forse il trattato più interessante tra quelli che portano il suo nome, ma di esso, anche se la scheda del catalogo lo dà a suo nome, è solo a lui indirizzato (l’incipit parla di un “libro dato a Bonifacio”[13]), ed infatti in un codice del secolo precedente la Practica roris madii è invece attribuita a suo nipote Giovanni[14].
Ad un testo intitolato a Bonifacio VIII si accenna in due redazioni del Vademecum di Frate Elia della seconda metà del XV secolo[15] aventi identico incipit: “Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo… inizia il trattato di Frate Elia denominato Vademecum ed è simile all’opera del pontefice Bonifacio”[16]. Bonifacio viene di nuovo citato più avanti con una frase che lascia intendere che tra le due opere vi fosse una sorta di interrelazione: “Né compirai quest’opera senza l’opera di Bonifacio, né quella senza questa”[17].
Non possiamo certamente affermare con sicurezza che queste opere siano state realmente scritte da Bonifacio, ma che ci sia un collegamento tra Bonifacio e le “arti magiche” è certo in quanto al suo tempo egli era considerato un mago che aveva rapporti con un demonio con il quale si consigliava, come si legge nelle accuse mosse contro di lui da Filippo il Bello nel processo che gli aveva intentato[18].
Per quanto concerne in particolare l’àmbito temporale del Trecento tra gli alti esponenti della gerarchia ecclesiastica si possono trovare ad esempio un Gilbertus cardinalis, autore di un trattato De aqua penetrativa quae solvit omnia metalla[19], o un Abate, quindi un alto personaggio benedettino il cui nome però non si legge a causa delle pessime condizioni del codice, autore di una raccolta di “ricette” per la fabbricazione di oro e argento intitolata Liber Abbatis[20], tra cui una tratta dal Vademecum di Frate Elia: Recipe vitrioli romani libram unam.
Ma gli esempi più interessanti su cui soffermarsi si trovano in uno dei codici di Alchimia più antichi, il ms 4Qq A10 della Biblioteca Comunale di Palermo, risalente al primo quarto del ‘300 e quindi molto prossimo al tempo in cui gli autori di questi testi, un “Cardinale bianco” e a un “vescovo di Cervia”, erano vissuti.
Il “Cardinale bianco” è identificato[21] con il Cardinale cistercense Giovanni di Toledo, nato in Inghilterra in data sconosciuta e morto nel 1275, medico di Innocenzo IV, studioso di Astrologia e Alchimia, considerato anche autore di un Liber de conservanda sanitate. Il trattato che porta il suo nome nel ms di Palermo[22] è l’Epistola de toto magisterio, identificabile con il De erroribus alchimiae di altri codici, considerato dal Calvet un estratto del più conosciuto Flos florum.
Il secondo testo è un Vademecum anonimo[23] dal cui titolo si desume che esso era stato trascritto furtivamente da un codice appartenente ad un vescovo di Cervia: Hec est scripta quam [sic] dedit Laurentius Buti Bartolomeo fratri meo quam [sic] dixit se habuisse a quodam episcopo Cerviensi temporis sue mortis furtive qui episcopus largas spendebat divitias.
Il “vescovo di Cervia”, secondo il Colinet[24], sarebbe da identificare con Teodorico Borgognoni di Lucca (1205-1298) vescovo di Bitonto e poi di Cervia, domenicano, che fu medico e professore di chirurgia preso l’Università di Bologna, penitenziere di Innocenzo IV nonché alchimista (a lui sono attribuiti due testi alchemici, De sublimatione arsenici e De aluminibus et salis, la cui paternità è però dubbia), il quale fu contemporaneo di Frate Elia, morto nel 1253 quando il Borgognoni aveva quarantasette anni[25].
Ritornando a quanto sopra si è detto, per gli studiosi gli interessi principali della Chiesa per l’Alchimia si limitavano a scopi puramente utilitaristici: la produzione di vero oro e il suo possibile uso per la monetazione o l’utilizzo delle tecniche alchemiche per la produzione di farmaci e in particolare di quelli per prolungare la vita oltre i limiti naturali. Se questo può valere per la posizione ufficiale della Chiesa non altrettanto si può dire per i suoi esponenti, i quali dimostrano in alcuni trattati di avere anche (sottolineo “anche”) un preciso orientamento verso i fini di reintegrazione dell’essere umano propri all’Alchimia philosophica, termine usato dagli scrittori di Alchimia e che possiamo tradurre con “sapienziale”.
Ad esempio Giovanni di Toledo, dopo aver sottolineato gli errori commessi da chi adopera sostanze di vario genere per ottenere la Pietra, “sangue, capelli, uova e urina, ed altri vegetali” oppure “arsenico, solfo, argento vivo e sale armoniaco”, indica il vero modo di operare a partire dall’argento vivo che è l’origine o, come egli scrive, lo sperma da cui tutti i metalli hanno origine e che deve essere immesso nel “ventre della terra” come il maschio fa con la femmina, in modo che attraverso il coito, il concepimento, l’ingravidamento e la nascita (coitus, conceptio, impregnatio, ortus) l’argento vivo possa unirsi alla terra, dealbarla e trasformare il corpo imperfetto nel lapis noster mediante l’unione di corpo e spirito. Così scrive rifacendosi a Morieno: “Qui è il corpo e lo spirito, e il corpo è fatto spirituale attraverso la solutio e lo spirito è fatto corporeo attraverso la coniunctio con il corpo imperfetto … Allora nasce il nostro lapis, che è il Re cercato dai filosofi, il nostro re che viene dal fuoco coronato con il diadema”[26]. Un modo di scrivere davvero poco ecclesiastico, che dimostra se fosse necessario la libertà che avevano i religiosi che scrivevano di Alchimia non ostante le ripetute condanne di questa arte.
Sullo stesso piano “filosofico” va letta la Practica roris madii di o dedicata a Bonifacio VIII[27]: la “ricetta” prevede di unire il mercurio con il “tuo oro” (solem tuum) e con il piombo aggiungendo poco per volta quella che il testo chiama “l’acqua della rugiada di Maggio” (aqua roris madii) per ottenere così “la tua medicina”. Se il significato di piombo, mercurio e oro è chiaro, corrispondendo essi al corporeo, all’animico e allo spirituale che compongono l’unità dell’essere umano, l’utilizzo di una sostanza come la “rugiada di Maggio” in un’operazione metallurgica appare strano, se non sapessimo che con questo termine alchimisti ed ermetisti si riferiscono a ben altra cosa che un liquido raccolto nei campi: la “rugiada”[28] è l’aiuto divino che è necessario a chi opera per poter giungere al compimento dell’iter, la provvidenziale influenza che dal cielo è inviata gratis et amore Dei a colui che agisce correttamente con studio assiduo, perizia nelle manipolazioni e pazienza nell’esecuzione del lavoro alchemico.
Concludiamo con un accenno al De leone viridi di Raimondo Gaufredi, XIII Generale dei francescani deceduto nel 1310. Nella sua opera[29] Raimondo per sottolineare l’importanza dei residui delle distillazioni, che nell’ultima operazione vanno aggiunti al lapis perché sia perfetto, scrive più volte una frase curiosa: faeces est ignis[30], legando un sostantivo plurale ad un verbo alla terza persona singolare, mentre tutte le volte che usa faeces come soggetto il verbo è regolarmente alla terza persona plurale, come se le faeces prodotte nel corso delle diverse operazioni e riunite insieme fossero da considerare una sostanza unica, “esso-i-residui”. Queste faeces, spiega Raimondo, sono “fuoco”, contengono il sulphur occultum, il principio maschile contenuto nei residui dopo che da essi è stato separato il mercurio, principio femminile, e sono stati estratti dalla lavorazione della Materia prima che è il piombo o Saturno, l’unico metallo da cui si può estrarre l’oro o Sole, come scrive Frate Elia nel Vademecum: “Chiamarono lo stesso saturno [cioè il piombo] oro dei filosofi, perché se preparato in altro modo è malato”[31].
L’utilizzo dei residui del “piombo” per completare la preparazione dell’ “oro” dovrebbe essere oggetto di un’approfondita meditazione per metterne in luce tutte le valenze e costituisce un’affermazione davvero molto importante per un religioso di così elevata posizione, confermando come nell’àmbito della Chiesa, pur con tutte le censure che venivano fatte, era possibile sviluppare un’Alchimia spagirica e sapienziale nella sua forma più compiuta.
[1] CRISCIANI Il papa e l’alchimia, Roma 2002, p.46.
[2] CRISCIANI Il papa e l’alchimia cit. ibidem.
[3] CRISCIANI Il papa e l’alchimia cit. pp.9-11.
[4] Si autem per alchimiam fieret aurum verum non esset illicitum ipsum pro vero vendere, quia nihil prohibet (citato in CRISCIANI I Domenicani e la tradizione alchemica nel Duecento, in “Atti del Congresso Internazionale Roma-Napoli, 17-24 aprile 1974. Tommaso d'Aquino nella storia del pensiero”, Napoli 1976.
[5] PEREIRA Arcana sapienza, Roma 2001, p. 130.
[6] In GALIANO Il Vademecum di Frate Elia, Roma 2019, sono messe a confronto redazioni del XIV secolo con quelle del secolo seguente per dimostrare come lo stesso trattato subisca variazioni anche notevoli nell’esposizione degli argomenti con il passare degli anni.
[7] L’Aurora consurgens potrebbe essere stata scritta da Tommaso verso gli ultimi mesi di vita, dopo che ebbe una crisi intellettuale che lo portò, a quanto riferì il suo segretario, ad abbandonare la Summa theologiae, che è infatti rimasta incompiuta, perché “tutto ciò che aveva fino ad allora scritto gli sembrava ora paglia” (PEREIRA Arcana sapienza cit. p. 181)
[8] Manchester, ms Rylands 65 della University Library, c. 123r: Explicit practica libri compositi a fratre Paulo de Tarento ordinis fratrum minorum qui fuit lector fratrum minorum in Asisio in arte alkemica. Si tratta di un codice del XV sec. forse scritto in Italia, nel quale è anche contenuto un Vademecum con il nome di Frate Elia.
[9] Ms Sloane 2327, Londra, British Library, XIV sec. Il codice contiene anche una delle più antiche redazioni del De leone viridi di Raimondo Gaufredi, Generale dell’Ordine francescano e contemporaneo di Bonifacio VIII.
[10] Ms 1717, Copenhagen, Regia Biblioteca di Danimarca, XVI sec.
[11] Ms 5230 Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, XV-XVI sec.
[12] Ms Latin 7162, Parigi, Bibliothèque Nationale Française, XVI sec.
[13]Ms Latin 7162 Parigi cc. 85v-88r: Incipit liber de practica roris madii datus Bonifacio principe venerabilissimo. Dico vobis quod primo oportet corpora in prima materia reducere ut ad hoc fiat multiplicatio et generatio.
[14] Ms 180, Bologna, Biblioteca Universitaria, cc. 5v-11v, XV sec.; nel testo l’amanuense scrive come data il Novembre 1471 (scheda MANUS CNMD\0000217120), il cui incipit è però differente: Liber de pratiqua [sic] aquarum roris madii datum pape Bonifatio VIII a domino Johanne filio sororis carnalis sancti domini pape. Cum animadverterem nobilem scientiam apud homines. Explicit: et vivit et regnat deus in sancta sanctorum amen.
[15] Il ms 90 della Biblioteca Rilliana di Poppi, seconda metà del XV sec., e il ms LIX della Biblioteca dei Concordi di Rovigo, ultimo quarto XV sec.
[16] In nomine domini nostri Jesu Christi… incipit Opus fratris Helie vademecum nomen est et est simile operi Bonifacii pontificis.
[17] Ms di Poppi c. 4r: Nec tamen operis hoc opus sine opere Bonifacii nec idem sine hoc.
[18] Si veda ad esempio SELBY Bonifacius VIII. e familia Caietanorum principum Romanus pontifex. Roma 1651, p. 255.
[19] Ms Pal. Lat. 1332 della Biblioteca Apostolica Vaticana cc. 49v-50v. prima metà del XIV sec.; ms El. Q 21 della Biblioteca dell’Università di Jena, scritto tra XIV e XV secolo.
[20] Ms 2528 della Biblioteca di Vienna, seconda metà del 1300.
[21] CALVET Les ouvres alchimiques attribuées à Arnaud de Villeneuve, Paris-Milano 2011 p. 27 e nota 1.
[22] Ms 4Qq A10 cc. 373v-376v. Le citazioni di seguito riportate, data la cattiva leggibilità del ms di Palermo, sono tratte in parte dal ms Lat. 7162 della Bibliothèque nationale di Parigi, trascritto nel testo cit. del Calvet, molto simile nella forma al testo di Palermo, e attribuito ad Arnaldo da Villanova (in altri codici anonimo o ascritto ad altri autori).
[23] COLINET Les alchimistes grecs, Tome XI Recettes alchimiques, Paris 2010, pp. L-LIX. Ringraziamo il Dr Ezio Albrile per averci portato a conoscenza di questo testo.
[24] Ms 4Qq A10 cc. 431r-431v (già 411r-411v): si veda COLINET Les alchimistes grecs cit. p. LII.
[25] VAUGHN Alchemy in Chirurgia of Teodorico Borgognoni, in Alchimia e medicina nel Medioevo (a cura di Crisciani e Paravicini Baglioni), Tavernuzze (Firenze) 2003, pp. 55-75.
[26] Ibi est corpus et spiritum, et corpus factum est spirituale in solutione et spiritus factus corporalis in coniunctione ipsius cum corpore imperfecto … Tunc enim natus est lapis noster, rex a philosophis nuncupatus… regem nostrum ab igne venientem diademate coronatum.
[27] Il testo ci è giunto da un manoscritto della fine del 1400, ma se fosse stato scritto, come dice l’incipit, dal Pontefice o da suo nipote dovrebbe ovviamente risalire alla fine del XIV secolo.
[28] L’argomento è approfondito in PARTINI Il segreto della “Rugiada Celeste”, Roma 2009, e più recentemente in PARTINI e GALIANO L’Opera alchemica in Frate Elia, Roma 2018, Cap. IVI.
[29] La trascrizione, traduzione e commento del De leone viridi saranno oggetto di una prossima pubblicazione.
[30] Ms A 16 della Biblioteca del Seminario Maggiore di Bressanone c. 214v, sec. XIV. La frase si legge anche nelle successive redazioni del XV e XVI secolo.
[31] Vocaverunt ipsum saturnum aurum philosophorum, alio modo aurum leprosum est (ms Pal. Lat. 1267, XIV sec., c. 243r). Per il testo integrale si veda GALIANO Il Vademecum di Frate Elia, Roma 2019.
(Autore: Paolo Galiano, pubblicato in questo sito il 07/06/2020. Si ringrazia per la gentile concessione. L'articolo originale si trova al seguente link: https://www.simmetria.org/sezione-articoli/articoli-alfabetico/82-simbolismo-alchimia-ermetismo/1119-chiesa-e-alchimia-fra-xiii-e-xiv-secolo-di-paolo-galiano sulla rivista "Simmetria.org", 18 Marzo 2019)